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Internauti e internati: quando la Rete diventa una scena del crimine

Bad news is good news. Il vecchio adagio giornalistico americano ben si adatta ai tempi dei social. Il compito precipuo dei media, lo ricordiamo, dovrebbe essere quello di informare e rendere partecipe la comunità di riferimento su ciò che accade nel mondo, in maniera il più possibile super partes. Si sa che nella realtà dei fatti accade tutto il contrario, ovvero i produttori delle notizie hanno intrapreso negli ultimi anni una corsa frenetica verso un interesse quasi morboso in direzione di tutti i casi di cronaca nera nazionale e internazionale.

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Il bisogno perverso nei confronti del perverso, del dettaglio pruriginoso, dell’efferatezza di un omicidio, sono caratteristiche peculiari di un soggetto, il lettore, abituato alla continua sollecitazione emotiva degli istinti più primordiali. Notava Eco in uno dei suoi commenti al mondo della comunicazione, che oggi ci troviamo di fronte a quotidiani che constano di circa 60 pagine, e per far sì che ogni pagina diventi attrattiva per il lettore, bisogna magnificare le notizie con lo sbattere il mostro non solo in prima pagina, ma anche nelle successive in maniera tale da solleticare la morbosità di chi legge. Dal giornale al web il passo è breve. Il mare magnum osservato attraverso gli schermi delle numerose apparecchiature tecnologiche sparse un po’ ovunque, offrono una ghiotta occasione per sperimentare quanto detto e accendere i riflettori su episodi che, altrimenti, sarebbero rimasti inascoltati o nella peggiore delle ipotesi relegati a striminziti trafiletti. Non contenti e ormai stufi dei casi da cronaca nera provenienti dal mondo reale, ci si tuffa nel virtuale dove non mancano parimenti casi di suicidi ed efferati omicidi.

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L’ultimo riguarda il matricidio compiuto in Cina qualche settimana fa. Una ragazza di soli 16 anni si è presentata alla vicina stazione di polizia per autodenunciare un omicidio: aveva ucciso la madre. Dopo aver tenuto il genitore legato per una settimana a una sedia, la giovane, l’ha lentamente fatta morire di fame. Non solo. Ha inviato foto e video della povera donna a una sua zia chiedendole un riscatto in denaro per liberarla. Purtroppo il denaro è arrivato troppo tardi e la donna è morta. Dietro la violenza e l’efferatezza della ragazza, così come poi da lei confessato davanti agli ispettori della polizia, vi sarebbe una vendetta per essere stata spedita contro la sua volontà in uno dei campi che si occupano in Cina di “rieducare la dipendenza da Internet”. La cronaca e le informazioni ricevute in merito parlano di questi campi di rieducazione come di luoghi infernali, noti per le punizioni severe e le “pratiche militari” compiute da inflessibili guardiani che non si fanno pregare prima di ricorrere anche ad elettroshock nei confronti dei più ribelli.

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La Cina, come la Corea e altri paesi orientali, conterebbe circa 24 milioni di persone affette da patologie legate all’uso di internet, su quasi 670 milioni di individui collegati alla Rete con un tempo medio di navigazione di 3,7 ore al giorno. Il governo cinese a fronte di queste cifre spaventose ha dunque dato il suo assenso per l’apertura di quelle che vengono definite “scuole” nelle quali, stando almeno ai dati forniti da una di queste strutture, almeno 7000 studenti sono riusciti a liberarsi dalla dipendenza dal web. i metodi di recupero restano però alquanto sindacabili: intenso allenamento fisico, consulenza psicologica e, se necessario, anche con la prescrizione di farmaci, il tutto in un contesto oppressivo e violento. Le cronache parlano di diversi casi di decessi tra gli interna(u)ti a causa appunto dei metodi troppo severi e violenti degli aguzzini dei campi di recupero.

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La storia di Chen, questo il nome della ragazza, è diventata, manco a dirlo, virale su tutti i principali social, a confermare l’assunto da cui eravamo partiti. La storia è certamente ghiotta da un punto di vista della cronaca, offre lo spunto per sporgere una comune denuncia verso un Paese (la Cina) che si è aperto al libero mercato e a un processo globale di occidentalizzazione ma che ancora contiene al suo interno usi e costumi appartenenti a un passato doloroso. Le storie che vengono pubblicate sui social molto spesso sono frutto di un emozione improvvisa, di un fenomeno derivante da un agglomerato di “mi piace” ottenuto o l’effetto dirompente di una frase pronunciata per creare sensazione e scandalo. La battaglia che si combatte sul web si basa sulla quantità e non sulla qualità del commento giornalistico, privilegiando il voyerismo e lo sciacallaggio mediatico, perché ciò che conta è la conquista dello sguardo fuggitivo della generazione del like. Siamo certamente quello che mangiamo, ma in una società che ama definirsi società dell’informazione siamo soprattutto quello che leggiamo.

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Data:

15 Ottobre 2016