Dalla morte di Mahsa Amini, studentessa curda 22enne, avvenuta lo scorso 16 settembre mentre era in custodia della polizia iraniana per aver indossato in modo non adeguato il velo, in Iran sono scoppiate proteste e scioperi. Da quel settembre sono passati ormai tre mesi e la situazione non si è per nulla placata. Le manifestazioni si sono diffuse in tutto il Paese partendo da Saqqez, nel Kurdistan iraniano, coinvolgendo non solo i giovani iraniani, bensì grandi fette di popolazione a prescindere dall’età, dal genere e dall’appartenenza sociale. È chiaro come l’azione del popolo dell’Iran non sia solo una protesta verso il regime di Raisi e la Guida Suprema Ali Khamenei o verso molteplici morti sospette, bensì uno scontro frontale all’ideologia islamica e dogmi troppo severi imposti dal potere. Il regime, intanto, ha attuato, come già accaduto in Iran, una sanguinosa repressione ed il controllo di internet. Ad oggi secondo Human Rights Activists News Agency, sono almeno 488 i morti tra i manifestanti, di cui 68 bambini, mentre oltre 18mila sono le persone arrestate. Sono tante le ombre che calano sul regime iraniano, sapendo che molti degli arrestati probabilmente verranno giustiziati, in quanto la magistratura ha annunciato di voler riprendere con le condanne a morte.
A inizio dicembre Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard sono stati impiccati a seguito di una condanna per “moharebeh” (inimicizia contro dio). Secondo la versione ufficiale della magistratura, Shekari sarebbe stato colpevole di aver bloccato Sattar Khan Street, una strada nel centro di Teheran, di aver estratto un’arma con l’intenzione di uccidere due membri delle forze paramilitari dei Basij e di aver provocato terrore e turbato l’ordine e la sicurezza sociale. Rahnavard avrebbe invece accoltellato a morte due soldati Basij. Inutile specificare come le esecuzioni sopracitate siano state eseguite dopo un processo molto sommario e a porte chiuse. Le autorità iraniane hanno inoltre fatto sapere che sono state emesse già almeno altre 5 condanne a morte. La crisi di sociale in Iran ha avuto un impatto mediatico enorme a livello mondiale, provocando gesti plateali contro il regime ai mondiali di calcio in Qatar e sensibilizzando decine di migliaia di persone in tutto il mondo a sostegno del popolo iraniano. Le proteste inizialmente avevano come obbiettivo quello di trovare i responsabili della quantomeno misteriosa morte di Mahsa Amini. Con il tempo, ed il susseguirsi degli eventi, le istanze dei protestanti sono divenute ben altre. In primo luogo una lotta contro l’obbligo del velo e contro l’oppressione delle libertà e dei diritti civili.
Successivamente l’azione si propagata contro tutto il regime iraniano in blocco, reo oltre di aver praticamente sotterrato la libertà dei cittadini anche di aver gettato l’Iran in un deterioramento economico, dilagante corruzione e repressione del dissenso politico. In sostanza, dopo tre mesi di protesta, i cittadini iraniani chiedono un cambio completo e strutturale del sistema politico dell’Iran, compresa la caduta del regime stesso. La partita, se così si può chiamare, è quindi ancora molto aperta. Nonostante la repressione attuata dal regime sia durissima, le proteste non si placano così come non si placa la solidarietà a livello mondiale. Gli scenari futuri possono essere molteplici, ma tante sono le incognite. Una via percorribile potrebbe essere una sorta di compromesso, dove il governo iraniano accetti alcune richieste di cambiamento per porre fine alle proteste. Questa possibilità però, la più bilanciata possibile, si scontra con problemi strutturali enormi. Da un lato il regime potrebbe accettare alcuni cambiamenti, ma senza rinunciare nel profondo a dogmi portanti. Dall’altra parte i cittadini iraniani desiderano un cambio totale, che gli restituisca diritti e libertà represse, e difficilmente potrebbero accettare una vittoria mutilata.