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La censura al tempo dei social

Tiranni, despoti e dittatori lo hanno sempre saputo bene: per ottenere il potere e mantenerlo nel tempo bisogna conquistare gli avamposti della comunicazione. Le grandi dittature del passato, fascismo, nazismo e comunismo, hanno impiegato tempi relativamente brevi per consolidare la loro forza nei confronti del popolo. Cinema, radio e giornali erano il megafono ideale per la loro propaganda. Oggi in un’era altamente tecnologica e, fortunatamente, priva della forza e dell’arroganza tipica dei poteri assoluti, per comunicare il proprio pensiero ci si avvale di mezzi tecnologici dalle sfumature maggiormente pervasive e altamente personalizzate che hanno assunto molta più forza rispetto al passato.

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Gridare la propria rabbia o comunicare ciò che si pensa riguardo ai temi di maggiore attualità, al giorno d’oggi elimina la fastidiosa incombenza di scendere in piazza e manifestare la propria opposizione. È un po’ come buttare la pietra e nascondere la mano, attendendo le conseguenze del gesto. La rivoluzione comincia direttamente da casa, stando seduti su una poltrona, davanti a un pc. Basta attivare i giusti profili sui maggiori social e con pochi caratteri e hastag appropriati, si fa giungere la propria voce in ogni angolo del pianeta.

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Questo è il modus operandi del cittadino globale, ma dall’altra parte vi è molto spesso il governo che si frappone tra cittadino e new media per imporre restrizioni, divieti e, in ultima ratio, la censura. Dai dati dell’ultimo rapporto stilato da Reporters Without Borders relativo al 2014, risulta infatti che la censura politica sia diventato un problema che preoccupa i paesi di tutto il mondo, pregiudicando i principi democratici e popolari anche di alcune grandi nazioni. Nella relazione dell’organizzazione francese emerge che nel mondo vi sarebbero ben 19 Paesi che hanno dichiarato guerra alla Rete, ma tra questi solo sei si sarebbero mossi per bloccare attivamente i social.

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In questa black list dell’oscurantismo tecnologico figurano la Turchia, l’Iran, il Pakistan, la Cina, il Vietnam e la Corea del Nord. Se la presenza di alcuni paesi in questa non certo meritoria classifica non desta nell’opinione pubblica nessuna sorpresa, per il loro atteggiamento ben poco confidenziale con i social, provoca un certo scalpore l’inserimento di un Paese come la Turchia.

cms_2449/Sospendete-la-censura-su-Twitter-dice-un-tribunale-turco.jpgMembro della Nato e candidata a fare il suo ingresso dell’Unione Europea, il paese di Recep Erdogan vive di contraddizioni: diviso tra due continenti, Europa e Asia; repubblica parlamentare che limita però i diritti e le libertà dei propri cittadini; i social network non sono ufficialmente proibiti ma in base ad alcune circostanze (politiche) vengono limitati e oscurati. Considerata la culla della civiltà, la Turchia dovrà dunque risolvere ben presto queste sue manchevolezze se vorrà entrare a far parte della grande famiglia europea; in caso contrario rimarrà presente in questa speciale classifica assieme a Paesi che si contraddistinguono per la loro bieca morale islamica. La Rete, ricordiamo, è uno strumento, un’opportunità di dialogo a 360°. Bloccarlo totalmente come fa per esempio la Corea del Nord o censurarne parte dei suoi contenuti per ragioni politiche e governative come invece fanno Iran, Pakistan, Vietnam e Cina, rappresenta una forma di oscurantismo mentale che non fa i conti con la realtà. Anche perché poi, alla fine, anche le più rigide maglie censorie possono essere facilmente raggirate per, in maniera virale, far scendere le persone nelle piazze (reali e virtuali).

Data:

11 Luglio 2015