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LA CINA DEL TERZO MILLENNIO FRA TRADIZIONE ED INNOVAZIONE – I parte

Propongo ai lettori di IWP lo studio condotto dal Prof. Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere Capo Servizio Presidenza Repubblica ed illustre collega accademico della Norman Academy. (Antonella Giordano)

cms_29034/Avv.jpgPer una panoramica comparatistica nella ricerca di un comune sentire tra i popoli, appare utile un rapido sguardo alla cultura cinese. Prima della rivoluzione marxista operata da Mao (1949), si contrapponevano la Scuola legista (equivalente al nostro giuspositivismo), che vedeva nella legge scritta (in cinese FA) – ed in particolare in quella penale – il più efficace strumento di governo, e la Scuola confuciana (comparabile con molta approssimazione al nostro giusnaturalismo), che considerava viceversa– più che le leggi, l’importanza della cultura e dei riti (in cinese LI) al fine del raggiungimento di un’ordinata convivenza civile.

La Scuola legista partiva dal postulato della fondamentale malvagità dell’uomo, (in Occidente sarà Hobbes – 1588/1679 – a formulare un analogo concetto: Homo homini lupus), con la conseguenza della necessità di un sistema di leggi punitive, anche crudeli, pur di realizzare un effetto di deterrenza dal crimine, almeno fino al momento in cui i cittadini non avessero interiorizzato i valori difesi dalla norma.

Lo Stato ottimale pertanto – per entrambe le Scuole – era quello che alla fine non avrebbe avuto più bisogno di leggi.

Pensiero questo, che rivedremo nel sec. XX sorprendentemente presente anche nel Carnelutti, il quale sostenne che società ideale era quella di un consorzio dove sarebbe bastata la spontanea adesione alla comune morale naturale, per vivere armoniosamente. Poiché tuttavia nel tempo breve la conflittualità degli interessi non poteva risolversi con l’elevata coscienza morale dell’umanità intera, ecco che doveva intervenire con la forza delle proprie sanzioni il diritto, che in tal modo era una sorta di “surrogato” della libertà, necessario sino a che il progredire dell’ordine etico avrebbe reso superflua la coazione legislativa.

Nel Celeste Impero per il ceto nobiliare, in quanto culturalmente formato, si rivelava bastevole l’etica confuciana; per le masse incolte, intervenivano i Codici, corredati dal necessario apparato sanzionatorio, che comunque recepirono i principi morali di cui si discorre.

Erano immuni dalle pene i nobili, gli alti burocrati, i saggi, i Mandarini, non suscettibili di giudizio ordinario, ma sottoposti a quello del solo Imperatore (né più né meno come avveniva nella cultura occidentale, prima dell’Illuminismo e della proclamazione del principio di uguaglianza).

Già esisteva peraltro la teorizzazione dei limiti al potere assoluto, affinché non degenerasse in tirannide: nel IV–III sec. a.C. il filosofo Kuang Tseu si esprimeva in questi termini: “Non cambiare mai una legge per soddisfare i capricci del Principe. La Legge è al di sopra del Principe”. In ordine poi agli effetti di una norma arbitraria, in quanto basata sulla mera forza, appare illuminante anche la riflessione della scuola del maestro Mo Tseu: “Che cosa succede quando la forza detta la Legge? La risposta è semplice: i grandi attaccano i piccoli, i forti spogliano i deboli, la maggioranza maltratta la minoranza, i furbi ingannano i semplici, i nobili disprezzano le plebi, i ricchi disdegnano i poveri, i giovani sgridano i vecchi”.

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Tornando alla legislazione in generale, i reati più gravi (omicidi, attentati all’Imperatore…) erano esclusi dagli atti di clemenza, analogamente a quanto accadeva nell’Impero romano.

Le norme dei Codici riguardavano di regola il diritto pubblico, quelle etiche e le consuetudini, il diritto privato.

La legge valeva comunque più come modello comportamentale, che come precetto assoluto, con la conseguenza per i giudici di poterla interpretare con la massima discrezionalità, in relazione alla singolarità del caso concreto dedotto in giudizio.

Non è ancora abbastanza noto il fatto che il mondo cui per sommi capi stiamo facendo cenno, ad un certo punto venne a contatto con quello romano, essendo di ciò state trovate sicure tracce nel 53 a. C. nella regione del Lijan, dove furono fatti prigionieri i militi sopravvissuti di una legione del console Licinio Crasso, i cui discendenti presentano dei tratti somatici che ne rivelano la parentela con i loro remoti antenati.[1]

Una piccola parte di tale legione, riuscita a far ritorno in patria, riferì di aver sorprendentemente notato l’esistenza di costumanze analoghe a quelle del proprio Paese, come il culto dei morti, la sontuosità delle cerimonie nuziali…; il che avrebbe aggiunto un ulteriore tassello all’elaborazione romanistica del diritto naturale, consistente in un complesso di norme che i Romani riscontrarono essere comuni a tutti i popoli civili dell’antichità con cui progressivamente erano venuti a contatto.

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Nell’antica Cina come a Roma, era il consensus gentium a supportare la giustizia scritta come sistema codificato di valori condivisi dalla collettività, in assenza del quale le leggi erano considerate inique ed arbitrarie. Nei rapporti sociali, compresi quelli tra classe dirigente ed amministrati, non era la forza a dover prevalere o la coazione, bensì la persuasione, il ragionamento, per addivenire ad una soluzione basata su di un consenso scaturente dalla razionalità comune e condivisa (la teoria del consenso sarà la medesima postulata dal successivo contrattualismo occidentale).[2]

Come nel diritto, può evincersi che esista una natura comune fra popoli assai diversi e lontani anche nella sfera sentimentale: il romano Apuleio nelle Metamorfosi narrò di Eros e Psiche, che si incontrarono nel loro amore contrastato, grazie allo stratagemma di quest’ultima di unirsi al suo amato assumendo le sembianze di una farfalla, segno dell’amore eterno e dell’immortalità dell’anima. Nelle prime tombe di Roma cristiana ricorreva poi l’allegoria della farfalla come segno dell’anima che lascia il corpo (bozzolo) e diventava così immortale.

Nella tradizione popolare del già Celeste Impero, ogni anno nella città di Ningbo (nel sud della Cina) si celebrano numerosi matrimoni evocando la leggenda del giovane Liang Shanbo e della giovane Zhu Yingtai, soprannominati “Giulietta e Romeo dell’Oriente”, i quali dopo la morte di entrambi a causa del loro amore contrastato, si tramutarono anche loro in farfalle per potere vivere per sempre insieme: il simbolo prescelto rappresenta anche in Cina l’amore perenne, la fedeltà, la libertà.

Il corollario di tutto ciò, è che i sentimenti, al pari dei diritti universali, sono scolpiti nel cuore e nella mente di ogni uomo sempre ed in ogni angolo della terra, con caratteristiche sostanzialmente uniformi.

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La civiltà cinese era ricca di similitudini con quella greco–romana anche nella filosofia: il menzionato Confucianesimo – sistema filosofico e non religioso – postulava l’esigenza del singolo di vivere in armonia con la natura, per cui al centro dell’Universo non vi era l’Uomo come padrone assoluto del mondo che lo circondava, ma come figlio dell’ambiente naturale ereditato dagli Avi, che doveva a sua volta custodire e proteggere per le generazioni a venire.

L’armonia era necessaria naturalmente anche con i propri simili (singolare analogia con Platone), al fine di impostare dei rapporti corretti a livello interpersonale, coltivando sentimenti di rettitudine, umanità, pietà filiale, lealtà e sincerità.[3]

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Alla lealtà necessaria verso i propri governanti, dovevano corrispondere da parte loro correttezza, virtù, capacità di saper amministrare (altra analogia, qui con Aristotele), scaturente quest’ultima – nella Cina contemporanea – da una rigorosa selezione meritocratica, che consente di scegliere i più preparati dopo un percorso di studi estremamente rigoroso e qualificante.

L’individuo più che rivendicare diritti, nell’evo antico doveva seguire l’etica del dovere, anteponendo il bene sociale a quello suo personale (in Grecia Socrate rinunziò alla vita stessa per il rispetto delle determinazioni della polis), la qual etica era maggiormente avvertita dalle classi socialmente più elevate dal punto di vista culturale.

Le leggi ed i tribunali chiamati ad applicarle, non erano in genere visti con particolare favore dalla cultura confuciana, anche in ragione di una lentezza e di una disorganizzazione del sistema “Giustizia”, che erano percepiti nella loro cronicità sin dall’antico nel mondo cinese: società ideale doveva essere quella che ne poteva fare a meno, fermo restando il valore delle leggi come ipotesi codificate di comportamenti corretti, con il corollario di sanzioni per quanti – viceversa – adottavano una condotta antisociale.

In ogni caso, il risarcimento per un illecito compiuto non doveva mai risultare così gravoso da mortificare l’obbligato, che avrebbe conseguentemente potuto nutrire sentimenti di rivalsa.

Il primo significativo, contatto tra la Cina la cultura occidentale cristiana- ovvero occidentale senz’altro- ebbe luogo nel sec. XVI in occasione della predicazione del gesuita P. Matteo Ricci, intrepido Pastore e scienziato, che ebbe – lo ricordò papa Benedetto XVI– la “innovativa e peculiare capacità [..]di accostare, con pieno rispetto, le tradizioni culturali e spirituali cinesi nel loro insieme”[4], con la consapevolezza che la Rivelazione avrebbe potuto ancor più valorizzarle e completarle.

Il Confucianesimo apparve una sorta di “religiosità naturale”, che poteva agevolare l’opera evangelizzatrice ai missionari gesuiti giunti in Cina. Fu in particolare Prospero Intorcetta S.J. uno dei primi grandi sinologi dell’età moderna, il quale scrisse:”Il saggio lettore consideri tutto quanto sarà utile alla predicazione del Vangelo l’autorità di quest’uomo quando essa possa(e sicuramente può) essere utilizzata presso un popolo che fu tanto sollecito del suo Maestro e delle sue opere, al fine di confermare la Verità cristiana; come vediamo fece l’apostolo Paolo che si appoggiò all’autorità del poeta greco davanti agli Ateniesi. Soltanto dovremo porre attenzione , mostrando sempre l’esempio dei Padri che ci lasciarono questa Missione fondata su una base di singolare prudenza e virtù, ad approvare ed a lodare con moderazione Confucio presso i cinesi per non aumentare sproporzionatamente con la nostra testimonianza ed autorità la stima dell’Uomo e della sua dottrina,che già tende ad essere maggiore del giusto; e ciò soprattutto presso un popolo orgoglioso per natura e che quasi disprezza tutto ciò che gli è straniero, ma molto più dovremo badare a non condannare con parole o scritti o a colpire colui che tutto il popolo tanto ammira e venera,per non renderci odiosi:non solo noi, ma quello stesso Cristo che predichiamo; e a non apparire noi Europei, almeno ai Cinesi, intenzionati non tanto a combattere contro il loro Maestro, ma contro la stessa ragione ed a distruggere la luce di questa, piuttosto che il nome di Confucio, disprezzando e condannando lui, che insegnò in modo tanto razionale ed ebbe cura sempre di conformare alla sua dottrina e le sue azioni”.(Rivisto e pubblicato a Goa, 1 ottobre, 1669).[5]

Quella dei rapporti tra la Cina ed il cattolicesimo fu una tela lunga 5 secoli, destinata a lacerazioni con squarci anche profondi, come nel periodo della furia maoista, fino alla provvida riattivazione del telaio tra S. Sede e Cina, dove sin dal 2003 la Compagnia aveva stabilito tra le preferenze il ministero in Cina[6], per arrivare nei tempi recenti alla determinazione tenace di un altro gesuita, papa Bergoglio, e di un lungimirante presidente della Repubblica cinese, come Xi Jinping [7].

Quest’ultimoparlando all’Unesco il 27 marzo 2014 disse:”Nel corso degli ultimi 2000 anni le religioni come il Buddismo, l’Islam e il Cristianesimo sono state introdotte in Cina, nutrendo la musica, la pittura e la letteratura nel Paese[..]Chi potrebbe tollerare lo stesso tono suonato in continuazione da un solo strumento?». Da qui le sue conclusioni: «Oggi noi viviamo in un mondo con differenti culture, gruppi etnici, colore della pelle, religioni e sistemi sociali e tutti i popoli sulla faccia della terra sono divenuti membri di una comunità intimamente unita e con un destino condiviso».

(Continua)


[1] Cfr. S. Schipani,“Diritto romano in Cina”, in XXI Secolo (2009), Treccani

[2] Cfr. M. Scarpari, Ritorno a Confucio, Il Mulino, Bologna,,2015,p.111

[3] Per una comparazione fra il mondo ellenico e quello cinese, cfr. G. E .R. Lloyd, Grecia e Cina:due culture a confronto, Feltrinelli, Milano, 2008. Per un raffronto mirato tra Confucio, Seneca e Plutarco, v. P. Beonio – Brochieri, Confucio e il cristianesimo, Luni editrice, Milano, 2017, p.92 segg.

[4] Cfr. Lettera al vescovo Giuliodori , dal Vaticano, 6.05.2006

[5] Il testo della lettera è riportato da P. Beonio – Brochieri, Confucio e il cristianesimo,cit.,p.216/8

[6] Cfr. A. Sosa, “I Gesuiti e gli occhi di Francesco”, ne La Civiltà cattolica, n.4073 del 7/21 marzo 2020, p.417

[7] Sulla missione ed inculturazione avviata dal insigne gesuita maceratese, cfr. amplius A. Paolucci, G. Morello, Ai crinali della storia: padre Matteo Ricci, fra Roma e Pechino, Allemandi,Torino, 2009

Tito Lucrezio Rizzo

Data:

14 Gennaio 2023