Nella seconda metà del XX secolo, l’arte in America raggiunge una posizione di autonomia e di egemonia, rimane in rapporto con la sfera europea (presenza alle Biennali veneziane) e ha caratteri propri; se in Europa rappresenta una società in crisi, qui è scoperta, invenzione, impeto creativo; é immediata creazione dei fatti estetici; manca di ogni inibizione nei confronti di tutte le tradizioni; rappresenta la non-inibizione in un mondo capitalistico impegnato all’accumulo di capitali e nel raggiungimento del benessere.
Avviene l’eliminazione di una categoria arte di cui l’architettura, la pittura, la scultura e le cosiddette arti minori non sarebbero che le specie. La funzione e finalità dell’arte sono sostituite dalla pura e semplice esistenza della cosa artistica, non altro che la rinuncia alle categorie tradizionali e l’impiego di una qualsiasi tecnica capace di «demistificare» l’arte per inserirla nel circuito della comunicazione di massa.
La morte dell’arte riguarda una rivolta morale: in una società che accetta il genocidio, i campi di sterminio e la bomba atomica, non possono simultaneamente prodursi atti creativi. La guerra è l’aspetto culminante della distruzione sistematica e organizzata , del fare-per-distruggere di una società che si autodefinisce dei “consumi”. Antitesi tra consumo e valore: l’arte è un valore che si fruisce ma che non viene consumato. L’arte non è un’entità metafisica, ma un modo storico dell’agire umano, ha avuto un principio può avere una fine storica.
L’urbanistica tratta il problema delle città, le quali, oppresse dalle costruzioni intensive della speculazione immobiliare, sono congestionate da un traffico convulso e ammorbante, smisuratamente estese in periferie informi, sono purtroppo tipici esempi di un ambiente repressivo e alienante. Tra le maggiori correnti artistiche l’action painting riveste un ruolo di primo piano: nella pittura americana il segno (linea o massa o colore che sia: le categorie non hanno più senso fuori della finalità conoscitiva dell’arte europea) ha la vitalità intensa e tenace del germe che si genera spontaneamente in un’acqua putrida, stagnante; è il passato che, non organizzandosi razionalmente in prospettiva storica, scade nel caos dell’inconscio.
Jackson Pollock (1912-1956). Una tensione etico-ideologica che lo spinge verso i pittori della rivoluzione messicana, specialmente i Siqueiros, si ispira al Guernica di Picasso. Capisce il senso profondo del Surrealismo: il nuovo valore che assume il segno come prolungamento all’esterno, dell’interiorità dell’artista. Tecnica del dripping: sgocciolatura a spruzzi di colore sulla tela distesa a terra, lascia un certo margine al caso; il caso è libertà rispetto alle leggi della logica.
Willem de Kooning (1904-1997). L’artista sostituisce all’espressionismo figurativo un espressionismo astratto, che non colpisce più la realtà del mondo svelando le contraddizioni, ma esplode in profondità, esprime l’angoscia della condizione umana, dell’essere-nel-mondo. Il gesto espressionista del dipingere, dell’impostare i colori, dell’avventurarli e manipolarli sulla tela è un gesto dirompente, che disintegra la realtà.
Franz Kline (1910-1962). L’artista traccia col proprio gesto un segno, con quel dinamismo intrinseco del fare pittorico, di cui si è parlato per de Kooning. Il gesto che fa il segno muove dall’interno ma si attua fuori: s’ingigantisce, diventa una grande ombra nera e minacciosa sullo schermo bianco della tela, come in un primissimo piano cinematografico. Il segno nero che oscura la superficie bianca della tela è una proiezione dell’inconscio, una macchia di colpa sul chiaro della coscienza. Questa ossessione è rappresentata dalla «questione negra».
Mark Tobey (1890-1976). Stralciato dal suo contesto, il segno diventa infinitamente ripetibile: i quadri sono generalmente formati da un tessuto ora più fitto ora più rado di segni pressoché uguali. Non sono identici: ogni segno fissa un punto dello spazio e del tempo, trascrive un altro istante dell’esistenza. Il singolo segno sta nel contesto come il singolo individuo nella massa: il tema da cui muove la ricerca è l’angoscia dell’individuo nella megalopoli industriale.
Josef Albers (1888-1976). Insegna al Bauhaus dal 1922 al 1933, é interessato alla densità e alla profondità dello spazio inteso come campo percettivo. Il quadrato è forma simbolica nel senso attribuito a questo termine da E. Cassirer nella sua Filosofia delle forme simboliche (1923) ed applicato alla prospettiva da E. Panofsky (La prospettiva come forma simbolica, 1924). Il simbolo non ha carattere sostanziale, ma funzionale.
Moholy-Nagy (1895-1946). Il fenomeno estetico integrato all’esistenza non si da nella singola immagine, che tende sempre a irrigidirsi in forma, ma in una sequenza di immagini. Anche quando l’immagine è una, è sempre il momento di una sequenza, idealmente collegato con una prima e una poi. L’immagine non è il risultato, ma la materia e l’oggetto della ricerca. Utilizzo del cinetismo, spontanea associazione e successione di immagini in campo ottico-psicologico. Lo spettatore vede materializzato il proprio processo ottico-mentale, se questo fosse veramente un processo di esperienza estetica. (Testi tratti dal libro G. C. Argan, A. B. Oliva, L’Arte moderna 1770-1970, L’Arte oltre il Duemila, Sansoni Editore, Milano, 2002).