Abitare lo spazio infinito del mondo social è come esporsi continuamente a un contagio di sentimenti a volte in conflitto tra loro. La caratterizzazione di gran parte delle piattaforme social basata sulla presenza, in forme che variano dal cuoricino al pollice su, dei “mi piace” che ogni utente, ogni giorno, aggiunge a video, post, immagini, non è altro che il tentativo di costruire un certo tipo di società basata sull’assenza. L’assenza innanzitutto di pensieri ostili, manca il tasto non mi piace, di contraddizioni, di momenti tristi o comunque negativi o pseudo nichilisti.
Sui social si assiste alla decostruzione di ogni tentativo di un pensiero profondo e critico per la naturale assenza di quest’ultimo condannato all’esilio forzato da spazi organizzati ad arte per altre finalità. È la costruzione di un mondo a sé in cui tutto cambia per rimanere eternamente uguale a ciò che la dittatura sottile e occulta dell’algoritmo dispone per una platea mai vista nella storia dell’uomo di adepti fedeli alla tecnocrazia.
Il tema appena delineato è diventato il soggetto di un libro molto interessante scritto da Simone Cosimi e dal titolo da spaghetti western, Per un pugno di like. Lo scritto conduce a una quasi amara riflessione che parte dalla considerazione che piattaforme come Facebook usano i nostri Like come fossero apposizioni nette e incontrovertibili in grado di rivelare quantità mostruose di informazioni, un’azione ovvero che produce miriadi di effetti a noi sconosciuti, una mollica lasciata sul percorso delle nostre vite digitali. La banale e ottimistica percezione che mettere “Mi piace” a margine di un contenuto visibile sulle nostre bacheche sia la porta d’ingresso principale per far conoscere a un amico la nostra approvazione benevola di ciò che ha postato, lascia il tempo che trova di fronte invece al disvelamento dell’illusione intimistica del rapporto a due che pensiamo possa esserci tra noi e il nostro amico.
Si tratta invece di un processo in cui la semplice approvazione ideologica lascia il passo immediatamente ad agenzie pubblicitarie e di marketing le quali usano i like per un uso economico all’interno di campagne pubblicitarie ad hoc attraverso la piattaforma dedicata del social. Il “Mi Piace” dunque nel suo ingenuo valore d’uso diviene carburante essenziale nel suo immediato e tintinnante valore di scambio allorché entra nel circuito di una piattaforma social sempre più interessata a rivenderli come informazioni utili ad agenzie commerciali. Come il libro di Cosimi ci dice, il Like è diventato un ingrediente essenziale del web contemporaneo fino a essere imprescindibile per molti modelli di business dei social. Il dibattito verte allora sulla critica di una cultura del consenso sempre più radicata nella nostra quotidianità sorretta da una dittatura (pseudo) ottimistica dove è assente il dissenso ma presente a dosi massicce l’odio ad personam.
Un atteggiamento di lotta silenziosa quasi di resistenza passiva all’eterogenesi dei fini a cui può portare un semplice like, ci arriva da Pierre Zaoui e dal suo bellissimo saggio L’arte di scomparire: l’autore ci illustra come il vivere con discrezione trasformi quest’ultima in un’esperienza artistica per l’essere umano, partendo proprio dal significato etimologico della parola discrezione, ovvero discernimento e separazione. Un atteggiamento che potremmo adottare come fosse una difesa immunitaria quando entriamo negli spazi anafettivi del web: «Sotto i grandi gesti di costituzione dei nostri ideali politici, morali, artistici, la discrezione è al lavoro per frammentare, disgregare, scavare dei buchi e delle tane, per ridare un po’ d’aria e permettere la libera circolazione di ruoli, forme e destini». […] Entrare nella discrezione (sarà allora) non come si entra furtivamente in casa di persone che non conosciamo, […] ma semplicemente per vedere come vivono e per lasciarsi commuovere dalla bellezza neutra delle cose, ovvero una bellezza senza soggetto individuale e senza oggetto specifico».