La fata Morgana non aleggia soltanto in alcuni luoghi o intinge di sé le pagine dei libri di fiabe, pronta a stimolare la fantasia innocente dei bambini: è insita nella nostra mente, che spesso vede ciò che non esiste, si fa attrarre da miraggi. Si fa catturare dalle reti del desiderio al punto di dare consistenza fisica all’inesistente o all’esistente forgiato nello spirito, come l’artista che ha un’idea in testa e la mette in atto, crea foggiando la materia, dandole vita, soffiandovi l’alito divino… tramanda il mito che lo scultore Pigmalione amasse cosi tanta la sua statua Galatea da renderla creatura umana. Il mondo magico, ai limiti di quello reale, è molto fervido per l’uomo, che dai primordi della sua comparsa sulla terra ha avuto sempre un rapporto ineludibile con l’ineffabile, l’incomprensibile, l’inspiegabile: pensiero, concretizzatosi in immagini disegnate, dipinte, scolpite, scritte per dare un senso, per sconfiggere la paura, per propiziarsi il favore delle divinità. Tante sono le versioni che sgorgano dall’immaginazione dell’homo, avido di trovare per certi fenomeni una logicità causale, nel desiderio di inglobare nella propria natura ciò che, esterno a sé, sfugge alla sua comprensione. Ritenendosi potente, talora da insapiens, come canta Leopardi ne La ginestra, bastano lievi moti per annichilire tutto; ha voluto dominare l’alterità nella sfida perpetua contro l’impensabile, divinità, mostri, flagelli naturali, scalando la Torre di Babele, conquistando la luna, da sempre rotante nel visionario, magico mondo mitico, come Ariosto esemplarmente racconta, satireggiando sull’insania degli uomini che scalano le montagne con i canestri per prendere la luna. Un mondo che ci avvolgerà, come una palla di neve per sempre, sfuggendo alla totale razionalizzazione del tutto, pur analizzato e ascritto alla fisica. Nessuno si sente sminuito a parlar di stelle cadenti e desideri, di interpretare segni quali segnali, di trovare collegamenti tra oggetti, gesti e altri fenomeni non percepibili nell’attimo in cui se ne vede la relazione, che magari non esistono o sono diversi dalla forma fisica, come magistralmente ci ha insegnato con la semiotica, Umberto Eco. Chi non ha mai ceduto a credere agli influssi delle pietre preziose o meno, pur non con la stessa certezza medievale, oltre che degli astri con quella maniacale devozione che ancor oggi molti hanno per l’oroscopo o per i Tarocchi, quasi ascoltassero l’oracolo di Delfi o le profezie del veggente Tiresia. I segni, la cifra di tutto, sempre attuali tali da far intimorire e preoccupare, ancor oggi, nell’annullamento del tempo intercorso con l’arte antichissima degli auguri, che interpretavano i segni o cercavano risposte sul futuro o esiti di imprese attraverso il volo degli uccelli o degli aruspici che ispezionavano le viscere degli animali.
Come non tornare con la mente alle superstizioni vivissime oggi ma di antichissima origine, come ci attesta l’etimo latino del termine super-stitio, ciò che sta al di sopra di ciò che è fermo stabile, quale l’operato degli dei per i Romani, di Dio per i cristiani, quindi fantasia fanatica, non rispondente alla realtà. Eppure non percorriamo la strada attraversata dal gatto nero, portiamo con noi un corno rosso contro la iettatura, impressa nel nostro immaginario con il pirandelliano Chiarchiaro, gettiamo il sale sull’olio versato per scongiurare il male, in funzione apotropaica, ricorrendo a scongiuri e formule contro il malocchio, l’invidia, (da in video, guardo contro), ben descrittoci da Catullo che nei suoi versi invita l’amata Lesbia a dargli mille e mille baci e poi sconvolgerli per non attirare lo sguardo malevolo degli dei. Non solo nel passionale mondo latino ma anche in quello greco troviamo gesti e fraseggi scaramantici volti a cacciare via un male ipotizzato irrazionalmente. Il nostro Dante scaglia continue frecce contro la malevolenza, riserbandole notevole valenza negativa:
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti.
(Dante Inferno, Canto XIII)
Gli arabi pure cedono alla credenza dell’agire per evitare il malanimo, lasciando per le case l’esterno di modesta fattura a celare l’interno, invisibile ma lussuosissimo. Quest’ultimo mondo ci richiama il nomadismo, i deserti, i miraggi di oasi, pure al sud si ascrivono gli effetti di vicinanza tra le punte di Scilla e Cariddi nello stretto di Messina, attrattive diverse pur legate dall’acqua, la vicinanza o la sete da colmare, saziarsi in qualche modo, esaudire un desiderio. Miraggi allucinativi, come spesso lo sono quelli della mente, del cuore di chi si autoinganna o si lascia ingannare dall’abile affabulatore con lo specchietto per le allodole, l’esca attirante nella rete i pesci, che allettati dalla prospettiva di cibo finiscono per diventare essi stessi cibo. Miraggio! L’etimo, dal francese mirage, apparenza meravigliosa, ci dice tutto, in senso ottico, simbolico, analitico recando in sé un carico di negatività, perché illusorio di una agognata realtà inesistente.
La fata Morgana ha indotto alla morte, secondo antiche credenze, lasciando vedere castelli, palazzi e torri ravvicinate in pieno alto mare come la sabbia del deserto ha soffocato chi pensava di dissetarsi in pozze di acqua. Tutto sotto l’egida dell’attrattività, un canto delle sirene ammaliatrici che travestite sotto parvenze diverse oggi incantano l’ulisside, avviandolo alla rovina, altrettanto il frastuono dei fascinosi Tritoni che insidiano e inducono al degrado o alla mercificazione bellissime ninfe. Il mondo dell’incomprensibile è tuttavia imprevedibile, magari l’oasi miraggio ti allontana da un pericolo, i castelli e i palazzi miraggio ti fanno attraversare lo stretto e per incanto rimani folgorato dalla bellezza atavica di una terra e persone di cui si hanno pregiudizi fuorvianti, e la fata Morgana, svestita della presunta malignità, ti fa scoprire un universo nuovo che, con la mente canalizzata, omologata respingevi; e all’improvviso lo trovi fantastico, fatto magari di rumore, caciara, vintage carovana familiare, eleganza nature, credenze superstiziose, tavole imbandite no-gourmet ma dai colori accesi, dall’abbraccio amichevole, dalla disponibilità verace tale da essere erroneamente scambiata per “do ut des”. La ruota gira per tutti, come canta Manzoni per Napoleone: si passa dalla polvere sull’altare, dalla reggia al triste esilio… la fata Morgana campeggia nei sud del mondo, come il nostro, bistrattato, disprezzato ma, pur con le sue pecche, in lenta rimonta nella considerazione altrui, che ha tanto da fare e da ricevere per porsi sul piano dell’efficientismo nordico ma che non si presenta agli occhi del mondo solo con la coppola, il sole, i peperoncini, la pizza, il mandolino. L’anima del sud è un fantasmagorico carrozzone che continua a percorrere cammini impervi, superando ostacoli, scalando “montagne” con sudore ma senza rinunziare a fermarsi per ammirare un tramonto, intonare canti alla luna, offrire un sorriso al viandante straniero, perché il magico, l’incomprensibile sprigionano scintille di stelle che illuminano il buio della noia, della inanità. Richiamando Muriel Barbery ne L’eleganza del riccio, non possiamo non rilevare che siamo stati e siamo primati, immersi nella civiltà, che è la violenza domata, pur non definitivamente, in cui abbiamo imparato a godere della camelia sul muschio… ma anche del profumo dei peperoncini essiccati al sole, della fragranza della zagara.