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LA GUERRA DELLA SICILIA CONTRO LA MAFIA (III)

I falsi miti sulle regole d’onore della mafia. Donne e bambini trucidati.

La mafia non tocca le donne”. E c’è anche una variante: “… e se le uccide, non lo fa con il piombo”.

cms_20194/1.jpgChiedete alla siciliana Graziella Campagna se la mafia sia gentile, cortese, legata a paradigmi di correttezza ed equilibrio. Chiedete a lei, se la mafia sia una mera tollerabile alternativa all’ordinamento costituito. Chiedetelo idealmente, perché Graziella è morta, per mano mafiosa, il 12 dicembre 1985. Era “fimmina” ed aveva solo 17 anni. Una ragazzina. Serve altro?

Graziella è stata uccisa con cinque colpi di lupara, sparati da vicino. È stata rapita ed è stata condotta sui monti del messinese, nei pressi di Forte Campone. Cosa avrà pensato durante gli interminabili minuti che hanno scandito la salita lungo il suo personale Golgota? E a chi avrà rivolto i suoi pensieri, prima che i carnefici recidessero la sua giovane vita? Una ferita al braccio e la postura del suo corpo esamine fanno verosimilmente pensare a un gesto di estrema e vana difesa.

La storia di Graziella dovrebbe essere nota ai più, pure in virtù del film “La vita rubata”, interpretato, tra gli altri, dal siciliano Giuseppe Fiorello. È una vicenda emblematica di cosa sia effettivamente la mafia non solo sotto il profilo della crudeltà ma anche in ordine a interconnessioni, coperture, complicità inimmaginabili, in un territorio che è apparso crocevia di tanto e garanzia per molti. Il film non può tradurre perfettamente la storia reale che, dipanata analiticamente e considerando i fatti successivi alle stesse riprese, sembrerebbe partorita dalla fantasia di un ardito scrittore. Verità sconvolgenti.

Graziella è morta per avere scoperto, ritrovando casualmente dei documenti presso la lavanderia in cui lavorava, che due apparenti distinti signori avevano nomi diversi da quelli con i quali usavano presentarsi. I due erano dei boss di mafia che vivevano in zona, praticamente indisturbati. Nessuna pietà, per lei.

Muri di gomma, strani personaggi, depistaggi: ci sono zone, in Sicilia, che qualcuno desidera restino strategiche per ospitare, creare, incubare, smistare. E allora il silenzio non ha prezzo. Figurarsi se la mafia, che avrebbe lungamente sequestrato e poi sciolto nell’acido un bambino – Giuseppe Di Matteo, dodici anni quanto fu rapito – per “punire” e intimidire il padre o che, a quanto sembra, ne avrebbe ucciso un altro – Claudio Domino, undici anni – con una pallottola tra gli occhi per “insegnamento”, si muove a pietà se lo sguardo da lupi incrocia quello di un agnello sacrificale! Del resto, non fu forse sempre mafiosa la mano che spense, negli anni Cinquanta, la vita del pastorello dodicenne Giuseppe Letizia, parrebbe testimone involontario della uccisione del battagliero sindacalista Placido Rizzotto, inviso a Luciano Liggio e dunque al boss Michele Navarra?

A rompere la cappa coprente e a diradare la cortina fumogena, la lucidissima ed efficacissima attività di Pietro Campagna, il fratello, valente carabiniere, che ha condotto, tra mille ostacoli, un’autonoma indagine per svelare dinamiche e consorterie mafiose intorno alla barbara uccisione di Graziella. A ciò si è aggiunta l’opera di Fabio Repici, avvocato siciliano che, da quel momento soprattutto, ha dedicato la sua esistenza all’antimafia di sostanza e alla difesa delle vittime della Piovra.

È un territorio, quello del messinese, che per tradizione è stato denominato “provincia babba”, quasi a volere eludere sguardi e pensieri, con questa etichetta di “genuinità”, di “ingenuità”. La realtà ci dice che la morte di Graziella rappresenta perfettamente quanto d’intricato ci sia in quelle zone di Sicilia, pur lontane dalla cronaca di maggiore impatto e dalla “usualità” di una mafia palermitana o, al più, catanese. Nella provincia di Messina, naturalmente, c’è chi combatte ed è vivo il ricordo di chi ha lottato fino allo stremo.

È un’area in cui si mormora – e sussistono inchieste – circa latitanze di personaggi di spicco della criminalità, circa traffici vari. Un giornalista, Beppe Alfano, fin troppo desideroso di sapere, capire ed esternare pro veritate, ha trovato la morte, in quel di Barcellona Pozzo di Gotto.

In Sicilia, i giornalisti cadono per mano mafiosa. Quanto si potrebbe parlare, su Mauro De Mauro, Mario Francese, Giuseppe Impastato! Anche in altre regioni in cui l’oppressione mafiosa non ammette libertà e verità, le voci sono spente con violenza. Pensiamo a Giancarlo Siani, nel napoletano, fatto tacere dalla Camorra. I giornalisti, in Sicilia, possono rischiare anche quando osservano strani movimenti di personaggi con cui, in fin dei conti, la mafia ben si coniuga. Sull’assassinio del meticoloso giornalista ragusano Giovanni Spampinato, avvenuto quasi mezzo secolo fa, ci sarebbe da approfondire. E che dire della morte di Mauro Rostagno, “continentale” ma siciliano d’adozione, non certo tenero con mafiosi e loro accoliti?

Sonia Alfano, la figlia di Beppe, cerca tutto quanto spieghi l’uccisione del padre. La verità ha passi lenti ma inesorabili. I muri di omertà di sgretolano se le picconate hanno la forza di una giustizia pura e la intransigenza di chi narra.

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Narrava tanto e scuoteva coscienze Pippo Fava, scrittore e giornalista che calamitava una gioventù impegnata nell’auspicio di un risorgimento anti-mafia, in una Catania che, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, viveva un contraddittorio boom economico, con, in sottofondo, il bang delle pistole. La Catania divenuta così simile a Palermo. La Catania in cui veniva ucciso il maresciallo dell’Arma Agosta e veniva compiuta la “strage dell’autostrada” (con il sacrificio dei carabinieri Bellissima, Bologna e Marrara), così come nel capoluogo, per dinamiche diverse ma pur sempre per mano mafiosa, trovavano la morte gli ufficiali dei carabinieri Basile, D’Aleo e Russo e si consumava la “strage della circonvallazione” (lasciando sul terreno i carabinieri della stazione di Enna, Franzolin, Di Barca e Raiti, nonché l’autista Di Lavore). Quando l’Italia ancora era sgomenta per quanto accaduto nella palermitana via D’Amelio, la mafia mostrò l’ampliamento della sua vocazione bellica e, sempre in quel tragico luglio del 1992, a Catania, assassinò l’ispettore Giovanni Lizzio, ben conosciuto per la sua opera di contrasto al racket mafioso.

Fava venne ucciso da Cosa Nostra, nella città etnea, il 5 gennaio 1984. Appena qualche giorno prima, il 28 dicembre 1983, aveva rilasciato una memorabile intervista, la sua ultima, a Enzo Biagi. “Mi rendo conto – disse Fava – che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante….

In realtà, è mafioso pure chi taglieggia; lo è il piccolo delinquente, se strumentale al contesto e se la sua attività è retta dalla consorteria mafiosa. Di sicuro, però, è un livello al quale dedicare una reazione quanti-qualitativa diversificabile, rispetto alla cura da prestare nei confronti di dinamiche macro e transnazionali.

Va da sé che un fenomeno come quello della Stidda, cioè una mafia persino antagonista di Cosa Nostra che ha attecchito nell’agrigentino, nel nisseno e nell’ennese, non può destare meno preoccupazioni, sol perché, almeno ab origine, inidonea al “ragionare in grande” e, secondo alcuni osservatori, frutto di una sorta di spontaneismo giovanile ribelle e del desiderio di una ricchezza da conquistare in fretta. La storia insanguinata di Gela – sesta città della Sicilia, per numero di abitanti – è un monito costante per non sottovalutare. La morte del giudice Livatino è stata cagionata proprio da stiddari.

Si pensi a quale sventura, in talune aree della Sicilia: Cosa Nostra e Stidda, in un crescendo di inaudita violenza e di accaparramento di vantaggi, utili, patrimoni, potere.

L’uccisione ad Agrigento del maresciallo Guazzelli, con dinamiche da film, è avvicinabile ai mesi delle grandi stragi della primavera-estate del 1992 e delle successive continentali.

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C’è mafia anche nel Sud-Est della Sicilia, come a chiare lettere scrive il giovane giornalista Paolo Borrometi, più volte minacciato e oggetto di violenza. Una sua inchiesta giornalistica ha contribuito allo scioglimento del comune di Scicli – meglio conosciuto come il palcoscenico a cielo aperto della fiction televisiva “Il commissario Montalbano – per infiltrazioni mafiose. Nel 2015, il Presidente Mattarella ha conferito a lui, trentenne simbolo di nuove generazioni vogliose di impegno e di valori, l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. Così come nel messinese, nel ragusano e nell’aretuseo, la mafia preferirebbe disattenzioni e complicità. I Siciliani, invece, han sete di verità. I Siciliani cercano molto più che semplici Vespri, poiché nessuna ribellione ha un senso se a un padrone ne succede un altro. Nella legalità i Siciliani trovano il mantenimento della loro alta dignità. Mirano alla liberazione.

Cerca la verità Vincenzo Agostino, che taglierà la sua barba allorquando sarà chiarito interamente chi e perché, nel 1989, abbia ucciso suo figlio Nino, sua nuora Ida Castelluccio e il piccolo che portava in grembo. Il tempo del rasoio pare vicino. Nino Agostino era un agente di polizia impegnato, parallelamente, in attività segreta di intelligence, in un’epoca – quella che precede le grandi stragi di inizi anni Novanta del secolo scorso e che è contemporanea al fallito attentato dell’Addaura – estremamente torbida e caratterizzata da personaggi istituzionali in realtà collusi con la mafia. Nino ha pagato il suo sapere, il suo approfondire e la sua scelta di non accettare compromessi in quel periodo di trattative: lui era chiamato a un dovere, non a tradire. Il piombo ha spento, assieme a lui, gli occhi della moglie Ida, in dolce attesa. Senza alcuna pietà.

I confini tra legalità e illegalità, tra istituzioni e mafia sono rimessi ai singoli. Chi è onesto, sa da che parte stare. Sguardo fiero, persino da morti, contro qualsiasi faccia da mostro.

In un contesto geopolitico successivo alla seconda guerra mondiale, la Sicilia è divenuto punto di riferimento e snodo. Mafia e non solo. E quando la mafia si unisce al “non solo”, i delitti e le stragi divengono inestricabili.

È dal 1976 che resta il mistero della strage della casermetta di Alcamo Marina: i carabinieri Falcetta e Apuzzo, crivellati di colpi da chi, per ragioni ancora non del tutto note, penetrò notte tempo nel piccolo distaccamento dell’Arma. Misteri su misteri. Di sicuro, non furono Giuseppe Gulotta a altri incriminati a massacrare i due militari; e di certo, chi li additò è morto suicida. Particolare curioso: un’auto-impiccagione, alle sbarre della propria cella carceraria, compiuta da un uomo privo di una mano.

Se ci si può impiccare con una mano, figurarsi se non ci si può iniettare una dose letale di droga, impugnando la siringa con la mano destra pur essendo mancini!

È quanto accaduto al giovane urologo Attilio Manca. Per il brillante medico di origine barcellonese, trovato morto nella sua casa di Viterbo, è avanzata l’ipotesi di una fine legata all’avere curato, in quel di Marsiglia, il boss Bernardo Provenzano: la mafia avrebbe eliminato un testimone scomodo. Giudizialmente, la tesi è stata confutata ma i familiari non demordono: non suicidio ma omicidio, in un quadro sconcertante di interconnessioni e coperture.

Del tentativo di uccidere il giudice Carlo Palermo, magistrato che aveva messo la lente d’ingrandimento sulla mafia e su tanto altro, restano lo strazio dei corpi di Barbara Rizzo in Asta e dei suoi bambini di soli sei anni, i gemellini Giuseppe e Salvatore. Un’autobomba, secondo un copione già scritto con Rocco Chinnici e replicato per circa un decennio, fino a una “anomala tranquillità”, fino a scenari di patti scellerati, a quella “trattativa” che svilì lo Stato e la cui esistenza è stata processualmente sancita, in attesa di successivi sviluppi giudiziali.

Quando nel 1992 la mafia dilaniò un’altra donna, Emanuela Loi – figlia della Sardegna –, lo fece perché facente parte, come poliziotta, della scorta del magistrato Paolo Borsellino. Assieme ai suoi colleghi e al giudice, fu vittima del dovere in una guerra impari contro la crudeltà. Della strage di Via D’Amelio è vittima anche Rita Atria. Testimone di giustizia, la ragazza, una volta appreso della morte del dottor Borsellino, si sentì smarrita, non avendo più il proprio riferimento, la persona alla quale narrare i segreti delle cosche. Aprì la finestra e si lanciò.

Nel nome di Paolo Borsellino, il fratello Salvatore e il movimento Agende Rosse danno respiro ed energia alla voglia di legalità dei siciliani giovani e meno giovani.

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La mafia uccide sempre vilmente. Una donna accettò il rischio che si concretizzò in una serata d’inizi settembre del 1982. Eliminato l’agente Russo, che li seguiva con un’auto di scorta, il commando di natura mafiosa – e si direbbe ancora “non solo” – ebbe mortale spazio libero sul prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e su di lei, la sua giovane moglie, Emanuela Setti Carraro.

In quanto consorte, qualche anno dopo, trovò la morte anche il magistrato Francesca Morvillo, accanto al collega Giovanni Falcone, in quella giornata terribile, a Capaci, quando l’esplosione massacrò loro e tre uomini della scorta.

La mafia non rispetta le donne, come non rispetta alcunché a essa non gradito. Emanuela Sansone, uccisa nel dicembre 1896, fu solo la prima di un elenco che rende lampante come l’idea di una mafia nobile e galante sia una enorme sciocchezza.

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E chiediamoci se Ilaria Alpi, uccisa con Milan Hrovatin a Mogadiscio nei giorni in cui forte era il suo impegno di giornalista d’inchiesta, possa essere ritenuta una vittima anche di mafia. Di quella mafia evoluta, transnazionale, affaristica ad alti livelli. Quella per cui Pippo Fava mostrava il maggiore interesse. Il tempo donerà prima o poi la verità.

Epilogo

Ripercorrendo le tante battaglie della guerra tra la mafia, i siciliani e lo Stato, viene in mente il giuoco delle parti di Luigi Pirandello. Non c’è dubbio che la mafia “rispetta il proprio ruolo”: è crudele, spietata, cinica. Anche milioni di siciliani e di uomini dello Stato rispettano il proprio ruolo: sono onesti, non accettano illegalità e hanno il senso delle istituzioni. Ma non tutti.

Si può piangere, anche se si è eroi. L’eroe è un uomo e il pianto completa l’essenza umana. Borsellino ha pianto. Ha pianto perché un amico “fedele” l’ha tradito. Come Borsellino tanti altri sono stati traditi.

Chi associa, in senso negativo, i siciliani alla mafia, chi sostiene “Lei non sembra siciliano!” – e ciò “a prescindere”, come direbbe Totò –, chi degrada immondamente la sicilianità fino al renderla accostabile ai disvalori criminali, chi contribuisce a far sì che il marcio copra il sole di Sicilia, deve chiedersi se il destino – del quale è pur sempre artefice –, invece di assegnargli il ruolo di buono, non gli abbia invece riservato un altro ruolo, il peggiore. Quello del traditore, quello di chi consegna ai nemici i siciliani. Il caino che pugnala la terra più dolce.

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Data:

3 Dicembre 2020