Mentire è un atto universale, tanto comune quanto controverso. Dalle “bugie bianche” raccontate per gentilezza ai grandi inganni che hanno modellato il corso della storia, la menzogna è una componente intrinseca della condizione umana. Per questo motivo, malgrado sia spesso condannata sul piano morale, la capacità di ingannare rivela una sorprendente complessità psicologica e sociale, tanto da essere considerata, da alcuni studiosi, come una delle tappe evolutive fondamentali della nostra specie. Ma cosa rende la menzogna così inquietante e al contempo affascinante? Da un lato, essa sembra minare la fiducia e la coesione sociale, dall’altro, pare il frutto di un’abilità che, se usata con saggezza, può invece favorire la convivenza e la cooperazione. Molti filosofi, tra cui Kant, hanno demonizzato la menzogna ritenendola inaccettabile in ogni forma, mentre altri, come Nietzsche, hanno messo in discussione persino l’esistenza di una verità assoluta, insinuando che viviamo costantemente in un intreccio di verità e inganni. In questo articolo, la menzogna verrà analizzata attraverso una lente interdisciplinare che spazia dalla biologia evolutiva alla filosofia e alla psicologia, per capire se sia possibile rispondere ad una domanda fondamentale: la menzogna è un difetto morale da estirpare o l’espressione di una peculiarità umana che, in quanto tale, merita di essere compresa e forse accettata?
Prospettiva scientifica
Pur essendo spesso condannata sul piano morale, la menzogna trova una sua giustificazione scientifica nel contesto evolutivo e psicologico, in quanto la capacità di mentire è stata riconosciuta come una dote che ha avuto e continua ad avere, un ruolo fondamentale nella sopravvivenza e nell’adattamento delle specie, in particolare, di quella umana. Non si tratta però di una nostra facoltà esclusiva giacché alcune ricerche condotte su primati, come scimpanzé e bonobo, hanno svelato che, seppur con modalità diverse, anche altre specie manifestano comportamenti che possono essere interpretati come ingannevoli. Ad esempio, gli scimpanzé per nascondere le proprie intenzioni ricorrono alla dissimulazione ed alla manipolazione degli oggetti, mostrando di essere in grado di occultare informazioni. Si può allora ipotizzare che le condotte mendaci, seppur nelle loro forme rudimentali, svolgano un ruolo non trascurabile nell’evoluzione degli esseri viventi. Lungi dal costituire solo un atto discutibile, la menzogna rappresenta quindi una strategia adattiva, che ha contribuito al progresso della nostra specie e testimonia il grado di sofisticazione cognitiva e sociale, raggiunta dall’essere umano. In tal senso, studi come quello di Robert Trivers (1971) sull’inganno strategico, confermano che la menzogna ha portato vantaggi evolutivi, contribuendo alla sopravvivenza in contesti sociali complessi. Oggi sappiamo infatti che alla base della capacità di mentire si trova la teoria della mente, cioè la possibilità di comprendere che gli altri possiedono pensieri, desideri e intenzioni propri, separati dai nostri. Questa abilità cognitiva, che emerge nel corso dell’infanzia e si sviluppa tra i 3 e i 5 anni, è considerata un elemento distintivo dell’evoluzione umana, poiché consente agli individui di prevedere ed influenzare i comportamenti altrui: se possiamo comprendere che gli altri pensano in modo diverso da noi, possiamo anche ingannarli o proteggere noi stessi attraverso l’omissione o la distorsione della verità. Un esempio semplice, ma illuminante, ce lo forniscono i bambini quando nascondono gli oggetti e danno indicazioni fuorvianti, dimostrando di possedere una capacità manipolativa che sottende ad un pensiero strategico. Tuttavia, è importante sottolineare che la menzogna non è un corollario automatico della teoria della mente, ma piuttosto una delle possibili strategie sociali, influenzata anche da fattori culturali ed etici. La capacità di mentire pertanto è legata, non solo al potenziamento cognitivo che ha permesso lo sviluppo della teoria della mente, ma anche alla nostra abilità di negoziare e gestire dinamiche sociali complesse; un aspetto che potrebbe essere stato selezionato evolutivamente per favorire sia la cooperazione che la competizione. Dal punto di vista psicologico infatti la menzogna sociale, che include atti come il “mentire bianco” o le omissioni volontarie, è stata ampiamente studiata per la sua rilevanza nelle dinamiche relazionali, essendo innegabile che, in molte situazioni, una piccola bugia può favorire la collaborazione, ridurre i conflitti e facilitare l’adattamento al gruppo. In quest’ottica, dunque, le menzogne sociali possono essere un metodo per il mantenimento dell’armonia e per la protezione dei legami affettivi. La psicologia evolutiva sembra insomma ritenere che il mentire non sia necessariamente un comportamento immorale o patologico, ma possa invece essere utile in una serie di circostanze in cui l’interazione umana richieda strategie di adattamento. In ambito scientifico, la ricerca si è anche occupata di individuare i meccanismi cerebrali messi in atto dal mentire e ce ne ha fornito una visione molto dettagliata. Studi di neuroimaging hanno infatti rivelato che l’elaborazione di una bugia attiva specifiche aree del cervello, in particolare la corteccia prefrontale che è responsabile delle funzioni esecutive, della pianificazione e del controllo dell’impulsività (Langleben et al., 2002).

Questo spiega perché mentire comporti un certo grado di sforzo cognitivo: la persona deve strutturare una storia plausibile, inibire la verità e mantenere la coerenza nella narrazione. Inoltre, l’attivazione della corteccia cingolata anteriore che è implicata nel rilevamento del conflitto, dimostra che, quando mentiamo il nostro cervello viene impegnato in un processo di monitoraggio continuo, per evitare incoerenze o contraddizioni che possano tradire l’inganno (Carter et al., 2000). Alcuni ricercatori hanno pure esaminato il comportamento neurologico delle persone che mentono in modo patologico (ad esempio, nei casi di disturbi della personalità), osservando che le zone cerebrali coinvolte nella regolazione delle emozioni, come l’amigdala, possono risultare alterate (Schulte-Rüther et al., 2011). Le scoperte neuroscientifiche portano dunque a ritenere che il fenomeno dell’inganno non sia solo un atto sociale o psicologico, bensì un processo biologico complesso, radicato nella struttura del nostro cervello. Altre indagini, come quelle di Frith e Frith (2006), indicano che mentire e riconoscere le falsità siano abilità cognitive tipiche dell’evoluzione degli esseri umani che richiedono un’interazione fra mente, corpo e dinamiche sociali. Questa complessità cognitiva ha spinto alcuni studiosi a considerare il mentire come una prova di intelligenza sociale avanzata ed in effetti, chi mostra una maggiore abilità nell’elaborare storie false tende pure ad eccellere in altri ambiti cognitivi, quali la risoluzione di problemi e il pensiero creativo. Analizzare la menzogna, da un punto di vista scientifico ed evolutivo, ci permette allora di coglierne meglio l’aspetto poliedrico strettamente legato all’intelligenza e alla sopravvivenza umana. In pratica, la menzogna, la simulazione, l’inganno, l’alterazione della verità, non sono soltanto attività umane riprovevoli, bensì fenomeni che hanno contribuito alla formazione delle società, così come le conosciamo oggi e rimangono tuttora mezzi efficaci per l’adattamento individuale ed il progresso collettivo. Tuttavia, mentire non è mai un comportamento privo di rischi, poiché, come sottolinea la teoria evolutiva di Tooby e Cosmides (1992), può minare la fiducia sociale e compromettere la cooperazione tra simili.
Approcci filosofici
Nella riflessione filosofica, la menzogna è un tema centrale, spesso affrontato per indagare i confini tra verità, morale e potere. Molti pensatori si sono interrogati sulla sua natura e sulle sue implicazioni etiche, offrendo interpretazioni diverse e talvolta opposte, per cui la menzogna è stata, sia condannata come una deviazione dalla virtù, sia celebrata come strumento indispensabile per la vita sociale. Kant, nella sua rigorosa etica deontologica, rappresenta il punto di riferimento per una condanna senza compromessi della menzogna. Secondo l’eminente filosofo tedesco, mentire è sempre moralmente sbagliato, indipendentemente dalle conseguenze: la verità è un dovere assoluto perché costituisce la base della fiducia reciproca e pertanto della possibilità stessa di una convivenza umana ordinata. Un esempio celebre è il dilemma del “bugiardo benevolo,” discusso da Kant nel saggio Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità (1797), scritto proprio per rispondere a chi aveva criticato la sua intransigenza morale. In questa prospettiva, ribadisce che dire una bugia, anche per salvare una vita, equivale a violare il principio universale della veridicità, fondamento imprescindibile per la fiducia e la coesione etica della società.
Tale posizione aveva sollevato, fin da subito, molte perplessità, poiché incompatibile con tante situazioni reali meritevoli di valutazioni più articolate e in effetti la rigidità di questo approccio focalizza l’importanza della coerenza morale, ma solleva tanti interrogativi sulla sua sostenibilità pratica, aprendo il dibattito su come conciliare i principi universali con le esigenze della realtà.

In netto contrasto con Kant, Nietzsche propose allora una visione radicalmente diversa, per cui la stessa verità sarebbe soltanto una costruzione umana, un’illusione collettiva necessaria per la sopravvivenza e la menzogna non un’eccezione, ma condizione intrinseca dell’esistenza. Nel suo studio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche sostiene che gli esseri umani costruiscono le “verità” per dare ordine e significato al caos esistente nel mondo, ma poi dimenticano di averle costruite loro e finiscono col considerarle entità assolute ed indiscutibili. La distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso perde dunque importanza, rispetto alla funzione che una determinata idea ha, nell’evitare l’immobilismo e promuovere la vitalità.

In questo contesto, la menzogna non viene più vista come qualcosa di puramente negativo, ma piuttosto come uno strumento che può essere utile per plasmare e nutrire la nostra esistenza. La finzione può divenire, insomma, una risorsa creativa capace di stimolare la forza vitale dell’individuo e spingerlo a superare le rigidità delle verità tradizionali. L’importanza di un’idea, quindi, non risiede nella sua aderenza alla realtà oggettiva, ma nella sua capacità di facilitare la crescita, l’autoaffermazione e il dinamismo dell’essere. Per Nietzsche, in definitiva, la verità non è tanto un problema morale, quanto una questione di opportunità e d’altronde, già Platone, affrontando il tema dell’inganno, aveva introdotto il concetto di “nobile menzogna” che avrebbe giustificato i governanti di una città, qualora avessero utilizzato una narrazione falsa, ma funzionale per preservare l’unità sociale e il benessere collettivo. È importante sottolineare però che Platone non intendeva giustificare l’inganno in generale, ma solo in quanto strumento per il mantenimento dell’ordine sociale, in una città ideale, caratterizzata da una ferrea divisione dei ruoli. La “nobile menzogna” rinvia al nostro dilemma iniziale: ci sono casi in cui l’inganno può essere moralmente tollerato? Un interrogativo che continua a risuonare anche nella filosofia contemporanea, specialmente nei dibattiti sulle fake news e sulla propaganda politica, dove distinguere la menzogna funzionale dalla manipolazione diventa sempre più arduo. Questa breve analisi, che si limita a sintetizzare tre modi diversi di intendere la menzogna, ma che potrebbe estendersi ad altri tantissimi filosofi di ogni epoca, mostra già sufficientemente quanto nella riflessione filosofica si sia sviluppata una frattura, forse insanabile, tra un’etica dell’assoluto, che impone la fedeltà alla verità sempre e comunque e una prospettiva più pragmatica, che ne considera tutte le eventuali conseguenze. Se da una parte Kant ci invita a rispettare un principio universale inviolabile, dall’altra Nietzsche e Platone ci ricordano che la realtà è spesso troppo complessa e non sempre può essere rinchiusa all’interno di regole morali inflessibili. Pur non offrendo risposte definitive, la filosofia ci spinge però ad esplorare il paradosso insito in ogni forma di inganno e, dalla contrapposizione tra verità e falsità, lascia emergere una domanda ancor più profonda: quanto siamo disposti ad accettare la complessità del reale, per riconciliarci con le nostre ambiguità?
La società contemporanea
Con l’evoluzione delle comunità umane, la menzogna si è trasformata in un elemento chiave per la gestione delle interazioni sociali e mentre, in passato, l’uomo aveva imparato a simulare un pericolo e/o manipolare informazioni per proteggere la propria incolumità, con la nascita di strutture organizzate, l’inganno ha acquisito un ruolo decisamente più sofisticato. Nell’attuale era digitale la menzogna ha così assunto forme nuove e pervasive, trasformandosi in un fenomeno sistemico che coinvolge media, politica e relazioni personali. Studi recenti (Vosoughi, Roy, & Aral, 2018) hanno evidenziato che la diffusione delle fake news è accelerata dalla velocità di propagazione e dalla quantità illimitata di informazioni che viaggiano online, rendendo sempre più sottile il confine tra verità e falsità. Le fake news hanno raggiunto oramai livelli preoccupanti e rappresentano forse la forma più emblematica ed insidiosa di inganno contemporaneo. Queste notizie false, costruite per manipolare l’opinione pubblica o alimentare paure, sfruttano infatti il nostro bisogno di certezze immediate che ci rende particolarmente vulnerabili (Pennycook & Rand, 2021).
Attraverso i social media, le menzogne, oltre a moltiplicarsi rapidamente, riescono anche a mimetizzarsi all’interno del flusso informativo quotidiano per cui non è facile distinguerle dalle notizie affidabili. Inoltre, secondo il fenomeno dell’“effetto verità illusoria” (Hasher, Goldstein, & Toppino, 1977), le informazioni proposte ripetutamente vengono percepite come più vere, indipendentemente dalla loro veridicità e ciò, nell’attuale contesto, caratterizzato da un’eccessiva semplificazione narrativa, contribuisce ad un maggiore radicamento delle menzogne. Altro aspetto significativo riguarda oggi il ruolo dell’inganno nel discorso politico che esaspera Il concetto di “post-verità”, ovvero di una realtà in cui le emozioni e le convinzioni personali prevalgono sulla razionalità e sui fatti oggettivi, influenzando le percezioni individuali della realtà, anche a discapito della verità fattuale. Le narrazioni politiche, al fine di ampliare e/o consolidare il consenso, si basano sempre più su affermazioni distorte o false e ciò è ben documentato dalle ricerche sulla disinformazione politica, come quella di Nina Jankowicz (2020), che ne illustra l’impatto sulle dinamiche di massa.

Va detto che, la menzogna politica non è certamente una novità, ma nell’epoca contemporanea viene anch’essa amplificata dagli strumenti tecnologici che ne potenziano l’efficacia. Algoritmi e big data possono, ad esempio, personalizzare i messaggi per segmenti specifici di pubblico, aumentando gli effetti delle falsità diffuse. Gli studi di Eli Pariser (2011) sulle “filter bubbles“, mostrano per l’appunto, come la personalizzazione dei contenuti possa contribuire alla diffusione della disinformazione, creando una sorta di isolamento informativo che rinforza le erronee convinzioni preesistenti.

Se da un lato, quindi, la menzogna sembra essere un elemento specifico di dinamiche macro-strutturali, dall’altro rimane centrale anche nelle interazioni individuali. “Bugie bianche”, omissioni e mezze verità, sono spesso giustificate come atti di cortesia o di protezione, ma sono pratiche che continuano comunque a sollevare molti dubbi, come quelli posti da Sissela Bok (1978) che evidenziano le varie implicazioni di tante “semplici” menzogne quotidiane di uso comune. A questo proposito, la filosofa americana di origine svedese, ha sostenuto la necessità di elaborare un metodo basato sui principi della filosofia morale per decidere in quali circostanze una bugia trovi, o meno, una valida giustificazione. Ad esempio, mentire per non ferire i sentimenti altrui può essere considerato una forma di “cura relazionale” che sottolinea come l’inganno abbia, talvolta, anche finalità empatiche. Va però ricordato che la menzogna è, quasi sempre, un mezzo di aggressione mentale e, l’aumento delle relazioni mediate dai dispositivi digitali, ci impone nuove sfide dall’esito quanto mai incerto. Ne fornisce una prova Sherry Turkle (2011) che, esplorando le implicazioni psicologiche della nostra interazione con il mondo digitale, ha rilevato come la creazione di identità virtuali false sia un fenomeno crescente che riflette il desiderio di costruire un’immagine idealizzata di sé. Ciò amplifica, ovviamente, gli interrogativi sugli aspetti etici e psicologici dell’inganno nella nostra epoca, anche se, paradossalmente, la stessa tecnologia che favorisce la diffusione delle menzogne offre, al contempo, pure gli strumenti per smascherarle. Tecnologie come l’intelligenza artificiale e il machine learning vengono difatti impiegate per identificare contenuti contraffatti, come i deepfake. Si tratta però di strumenti che, come ha puntualizzato Hany Farid (2022), non sono essi stessi esenti da potenziali manipolazioni. Questa ambiguità riflette purtroppo un tratto distintivo del nostro mondo contemporaneo: mentre le capacità tecnologiche si espandono e sembrano inarrestabili, la distinzione tra realtà e finzione diventa sempre più difficile da tracciare. La società odierna rende quindi ancor più appariscente quella storica contraddizione che vede la menzogna, ufficialmente e pubblicamente condannata, ma nondimeno, ampiamente e comunemente utilizzata. D’altronde, come suggerisce la famosa teoria della dissonanza cognitiva, di Leon Festinger (1957), le persone tendono di solito a giustificare i comportamenti che contrastano con i propri valori, creando una netta separazione, tra le loro convinzioni e le azioni quotidiane.
(Continua)