Quante volte ti sarà capitato di leggere frasi come ‘Sii la versione migliore di te stesso’ o ancora ‘Dieci consigli per una vita abbastanza appagante’, ‘Cinque consigli pratici per la tua crescita personale’, ‘Come smettere di girare in tondo nella tua vita’… o, ancora, quante volte ti sarà capitato di pensare ‘La verità è che non sono abbastanza’ o di non sentirti all’altezza della prestazione richiesta.
Oggi ogni settore della vita sembra diventare un campo di prestazione: la carriera, la famiglia, le relazioni, l’immagine del sè, la gestione del tempo. Di fronte alla richiesta di produttività continua spesso reagiamo con una strategia di coping, l’ipercompensazione, esecrando cioè fragilità e debolezza.
Tiriamo un sospiro di sollievo perché c’è una buona notizia: a meno che tu non sia Batman o Catwoman non esistono superdonne o superuomini dotati di poteri stupefacenti. Le grandi conquiste non arrivano seguendo un copione o delle regole magiche. In un’epoca in cui la velocità, la connessione permanente e la disponibilità continua sono divenute le caratteristiche fondamentali della nostra vita quotidiana, il concetto di multitasking sembra essere un imperativo categorico. Lavoriamo come stakanovisti per poi contrarre una qualche sorta di esaurimento mentale o, nel migliore dei casi, una stanchezza profonda.
Ma davvero dovrebbe essere così?
Il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ha dedicato ampie riflessioni alla “società della performance”, in cui l’individuo non è più controllato da norme esterne (come nella “società disciplinare”), ma è spinto a migliorarsi continuamente esercitando forme di auto-controllo. L’individuo non è più semplicemente “comandato” o “limitato” da leggi e istituzioni, ma si auto-impone un ritmo di lavoro incessante, estenuante e produttivo. Il “sempre di più” diventa il dettame: sempre più dinamismo, sempre più produttività, sempre più efficienza, tradotto in altri termini, fare di più in meno tempo. L’individuo moderno non è solo costretto a lavorare incessantemente, ma si auto-impone la continua prestazione, come se il valore della sua esistenza scaturisse dalla sua capacità di essere costantemente produttivo. Nel cuore di questa corsa alla performance, Han scorge un paradosso fondamentale: mentre la connessione e l’interconnessione sono diventate peculiarità basilari della nostra vita quotidiana, l’individuo si riscopre sempre più isolato e disconnesso dalle proprie esperienze emotive. Han descrive questa condizione come una solitudine silenziosa, in cui l’individuo è incessantemente impegnato a fare, a reagire, a produrre, senza mai fermarsi a vivere il momento.
L’uomo moderno, sperimentando uno stato di perenne dispersione mentale, non è più in grado di riflettere profondamente su sé stesso, di concentrarsi su un singolo obiettivo, né di costruire un autentico legame emotivo o una comunicazione profonda. Lo scrittore Luis Sepùlveda, autore di una straordinaria favola intitolata “Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”, riconosce alla lentezza il valore di un atto rivoluzionario. «È una nuova forma di resistenza – afferma – in un mondo dove tutto è troppo veloce. E dove il potere più grande è quello di decidere che cosa fare del proprio tempo». Così, al termine di questo meraviglioso cammino chiamata vita potremo anche noi sospirare “In questo viaggio […] ho imparato tante cose. Ho imparato l’importanza della lentezza e, adesso, ho imparato che il Paese del Dente di Leone, a forza di desiderarlo, era dentro di noi”.
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Fonte:hƩp://www.excur
sus.org/storia-di-una- lumaca-luis-sepulveda/
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