Il MoMA, museo di arte contemporanea di New York, riunisce nella stanza 420 le opere di un gruppo di artiste internazionali dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta.
Un periodo di sconvolgimenti sociali negli Stati Uniti e in Europa ma molto ricco e significativo nella storia della lotta per i diritti delle donne: uguaglianza, sessualità, riproduttività, famiglia e lavoro.
Quest’esposizione indaga su come le immagini nell’arte occidentale e nei media, il più delle volte prodotte dagli uomini, perpetuassero le idealizzazioni della forma femminile. Le artiste femministe hanno rivendicato il corpo femminile e lo hanno rappresentato attraverso una varietà di lenti.
Nella performance art, termine coniato negli anni ’60, molti artisti esplorano il genere attraverso le rappresentazioni del corpo utilizzando quest’ultimo nel loro processo creativo.
Alcune artiste hanno adottato un approccio distintamente concettuale nello stabilire il terreno d’intreccio tra arte e politica o per offrire una critica femminista dei tradizionali confini di genere presenti nelle loro società. Altre hanno comunicato esperienze di donne in modi più sensuali o intuitivi, attingendo a storie personali o prendendo posizioni su questioni sociali.
In questo periodo il corpo ha assunto un ruolo importante, è divenuto mezzo con cui gli artisti creano il loro lavoro. Per molti di essi, usare i propri corpi nelle performance è diventato un modo sia per rivendicare il controllo appunto sui propri corpi sia per mettere in discussione le questioni di genere.
Nella città cosmopolita per eccellenza, tutto il “mondo” si connette e si presenta sotto varie forme
per comprendere gli aspetti dell’identità come il genere, la sessualità, la razza e l’etnia. Il corpo umano diventa così strumento fondamentale per esprimersi. Le persone alterano i loro corpi, capelli e vestiti per allinearsi o ribellarsi alle convenzioni sociali e per esprimere messaggi agli altri che li circondano.