Le poesie Grodek di Georg Trakl e La prima volta di un pianto di Martina Ferlino, sebbene distanti per epoca, contesto storico e linguaggio, si incontrano in una comune intensità emotiva e in una visione lucida – a tratti lacerante – della fragilità umana di fronte alla violenza e al dolore.
Trakl, poeta austriaco della prima guerra mondiale, con Grodek traccia un paesaggio apocalittico dove la natura stessa sembra piangere la follia bellica. La sua scrittura, visionaria e simbolista, trasforma il campo di battaglia in un luogo dell’anima, popolato da ombre, cadaveri e un silenzio irreparabile. Il pianto che chiude la poesia – quello dei bambini orfani – è un grido universale, un’eco eterna della distruzione che gli uomini infliggono a se stessi.
Martina Ferlino, nella sua La prima volta di un pianto, affronta un altro tipo di ferita: quella emotiva e relazionale, ma non per questo meno profonda. Il dolore non nasce dalla guerra, ma dalla parola che ferisce, dall’insicurezza, dall’aggressività che si consuma nei rapporti umani quotidiani. E tuttavia, anche qui, il pianto è la soglia: segno di consapevolezza, di trasformazione, di resistenza alla brutalità.
Entrambe le poesie mettono al centro il momento della frattura, la perdita dell’innocenza, lo scoppio di un dolore che non trova consolazione. Eppure, se in Trakl domina l’inevitabile disfacimento della civiltà e della vita, nella voce di Ferlino il pianto diventa quasi un battesimo, un primo passo verso la comprensione e la possibilità di essere umani.
Questo confronto mostra come, a distanza di un secolo, la poesia continui a interrogare la sofferenza con occhi diversi ma con la stessa urgenza. La voce scura e allucinata di Trakl dialoga con quella nitida e penetrante di Ferlino in un terreno comune: quello della verità, della vulnerabilità e della potenza emotiva che la parola poetica sa restituire.
Georg Trakl

Nato a Salisburgo nel 1887 è una delle voci più intense e tragiche della poesia europea del primo Novecento. Cresciuto in un contesto borghese e colto, si avvicinò presto alla letteratura, alla musica e alla filosofia, maturando una sensibilità profondamente inquieta e visionaria. Poeta simbolista e precursore dell’espressionismo, Trakl elaborò una lingua poetica cupa e incantata, capace di dare forma alle angosce individuali e collettive del suo tempo.
La sua opera è attraversata da immagini notturne, paesaggi autunnali, presagi di morte e dissoluzione, che riflettono un tormento interiore costante e una visione del mondo segnata dalla malinconia e dalla colpa. Fin dall’adolescenza combatté con la depressione e una crescente dipendenza da droghe, elementi che alimentarono il tono allucinato e profetico della sua poesia. Il suo linguaggio, lirico e franto, unisce il sublime e il doloroso, trasformando la realtà in una dimensione sospesa tra sogno e rovina.
Trakl fu travolto dagli orrori della prima guerra mondiale, che visse come ufficiale medico al fronte. L’esperienza del massacro, unita al crollo psichico, lo condusse a comporre alcune delle sue poesie più celebri, tra cui Grodek, un capolavoro che unisce la bellezza formale a una visione tragica e spietata dell’umano. Pochi mesi dopo, nel 1914, si tolse la vita a Cracovia, a soli 27 anni.
La sua poesia rimane un testamento luminoso e lacerante dell’inquietudine moderna. I suoi versi, impregnati di silenzi, simboli e colori crepuscolari, hanno segnato profondamente la letteratura del Novecento, influenzando generazioni di poeti e lettori. La sua voce, fragile e profonda, continua a parlarci con la forza di chi ha attraversato le zone più oscure dell’anima per restituirne una bellezza scabra e indimenticabile.
La scelta
Georg Trakl, nella sua ultima e più celebre poesia Grodek, compone un canto funebre spettrale e visionario in cui la guerra e la natura si fondono in un’unica, terribile visione di fine e dissoluzione. Scritta poco prima del suo suicidio nel 1914, dopo aver assistito all’orrore del fronte galiziano, questa lirica incarna il grido tragico di una generazione schiantata dalla follia del conflitto. La musicalità spezzata dei versi, il lessico apocalittico, le immagini estatiche e violente rivelano una coscienza poetica percossa da una sensibilità estrema, in cui la bellezza e la morte si stringono in un abbraccio visionario.
La natura, che altrove è scenario di riflessione mistica e simbolica, diventa qui teatro dell’abisso, mentre la sorella — figura cara e ricorrente nella sua opera — si trasfigura in ombra compassionevole, custode di un addio cosmico. Le voci dei soldati, ridotte a lamenti, si dissolvono nel silenzio tra i salici e le stelle, in una musica finale che è requiem per l’umanità.
Grodek
A sera risuonano i boschi autunnali
di armi letali, le auree pianure
e gli azzurri laghi, e dall’alto il sole
rovina all’orizzonte, più oscuro; la notte abbraccia
guerrieri morenti, il furioso lamento
delle loro bocche in frantumi.
Pure silenziosa si raduna fra i salici
rossa nube, soggiorno di un dio furente,
il sangue sparso, argentea frescura;
tutte le strade sfociano in nera putredine.
Sotto i rami dorati della notte e le stelle
vacilla l’ombra della sorella per la selva ammutolita,
a salutare gli spiriti degli eroi, le teste insanguinate;
e lievi risuonano nel canneto i sinistri flauti autunnali.
Oh, più fiera pena! O voi, are di bronzo,
un possente dolore nutre oggi l’ardente fiamma dello spirito,
i nipoti non nati.
I versi elevano il dolore a visione profetica: il campo di battaglia si trasforma in un luogo sacrificale in cui l’umanità è divorata dalla sua stessa furia, e il futuro — evocato nei “nipoti non nati” — resta un’ombra nutrita da un lutto indicibile. La lirica non è solo denuncia o elegia, ma discesa nell’inconscio collettivo, dove la memoria si impasta con il sangue e le stelle, con la musica funerea dei flauti che ancora echeggiano tra le rovine. La poesia, nella sua forza crepuscolare, diventa testamento e condanna, sogno infranto e visione assoluta. In Trakl, come in pochi altri, la parola poetica riesce a contenere l’orrore senza smettere di cantare, facendo della bellezza una lama che fende il buio.
Martina Ferlino

È un’autrice pugliese di vent’anni, attiva fin da giovanissima nel panorama letterario contemporaneo. La sua produzione si articola in tre pubblicazioni: La donna: passato, presente e futuro…? (2020), Una notte sui Monti Sibillini (2022) e Emozioni in versi (2025), opera che segna il suo esordio nella poesia.
La scrittura è solo una delle molteplici attività a cui si dedica con passione. Interessata a vari ambiti culturali e sociali, Martina coltiva in particolare un profondo interesse per la storia, che rappresenta uno degli elementi distintivi della sua formazione e dei suoi passatempi.
Accanita lettrice, spazia tra diversi generi letterari, con una predilezione per le biografie. Ama in particolare le storie di donne forti del passato: figure che, con coraggio e determinazione, hanno saputo affermarsi in contesti dominati dal maschilismo, diventando per lei fonte di ispirazione personale e letteraria.
La scelta
Nella poesia La prima volta di un pianto, l’autrice mette in scena un dramma interiore che è insieme personale e universale: il momento in cui si prende coscienza della propria vulnerabilità come parte ineludibile dell’essere umani. Il testo si apre con un’immagine trattenuta e silenziosa — i pugni stretti, le parole dure — che lascia presagire una deflagrazione emotiva. La tensione cresce in un crescendo che non esplode in rabbia, ma si scioglie nel pianto: gesto primordiale eppure nuovo, rivelazione intima e autentica.
Il dolore non viene né negato né glorificato, ma accolto come elemento necessario per riconoscere la fragilità che ci accomuna. In questi versi, il pianto non è segno di debolezza, ma espressione ultima di consapevolezza e dignità. La poesia lavora con un lessico essenziale, tagliente, che attraversa la rabbia, la paura, la tristezza, fino a scoprire — come un gesto di disarmo — il volto vero dell’essere umano.
La prima volta di un pianto
Stretti i pugni…
Ancorati forti alle insicurezze…
Parole dure, durissime.
Sono già pronte ad essere scagliate!
Il non saper reagire rende vittime.
E l’insulto rabbioso, carnefici!
Ci sarà un modo per sfogare la tristezza?
Non rendendosi schiavi del dolore?
È qui che arriva per la prima volta il pianto…
Non uno di gioia o felicità.
Ma quello della consapevolezza di essere umani!
Questa poesia si pone come una riflessione semplice ma potente sul rapporto tra ferita e identità. In poche righe, riesce a distillare una verità esistenziale: la prima lacrima di consapevolezza segna un passaggio, un’iniziazione, un’apertura verso sé stessi e gli altri. La scrittura, asciutta e sincera, rinuncia agli ornamenti per arrivare al nucleo del sentire. Così il pianto diventa soglia: oltre la rabbia, oltre il silenzio, un varco possibile verso una forma più matura e autentica di umanità.