Il confronto tra Nazim Hikmet e Antonio Onorato mette in luce due autori che, pur appartenendo a epoche e contesti diversi, condividono una sensibilità lirica capace di esplorare il tema delle possibilità mancate e del desiderio inappagato, attraverso uno stile evocativo e incisivo.
Nazim Hikmet, nella sua poesia “Il più bello dei mari”, costruisce un discorso poetico basato sull’attesa e sulla speranza. Il poeta turco utilizza immagini semplici ma potenti per suggerire che il meglio deve ancora venire: il mare più bello è quello che non abbiamo ancora navigato, i giorni più belli sono quelli che non abbiamo vissuto. La poesia di Hikmet si muove su un registro sospeso tra nostalgia e ottimismo, lasciando spazio a un senso di attesa fiduciosa, in cui il futuro si apre come una promessa ancora da realizzare.
Antonio Onorato, nella sua poesia “Saremmo potuti essere”, affronta un tema simile, ma con una prospettiva più intimista e disillusa. La struttura anaforica scandisce il ritmo del rimpianto: “Saremmo potuti essere…”, “Avremmo potuto avere…”, “Saremmo potuti diventare…”. Tuttavia, a differenza di Hikmet, il poeta non lascia spazio alla speranza, bensì chiude il componimento con un’amara consapevolezza: “Ci resta ciò che abbiamo sbagliato / senza più parole / senza più scuse / in un mondo / senza più noi”. Se Hikmet suggerisce che le possibilità ancora ci appartengono, Onorato constata che sono sfumate per sempre.
Entrambi gli autori si servono della ripetizione per dare forza e musicalità al verso, ma mentre Hikmet esprime un’attesa colma di possibilità, Onorato racconta un’assenza definitiva, in cui non resta che prendere atto della perdita. Due modi diversi di confrontarsi con il tempo e con ciò che non è stato, accomunati dalla capacità di tradurre in poesia il senso profondo del desiderio e del rimpianto.
Nazim Hikmet

È uno dei più importanti poeti turchi del XX secolo, nato il 15 gennaio 1902 a Salonicco, allora parte dell’Impero Ottomano. Cresciuto in una famiglia colta e benestante, sviluppò presto una passione per la letteratura e la politica. Dopo aver studiato alla Scuola Navale di Istanbul, si trasferì a Mosca, dove venne influenzato dalle idee rivoluzionarie e dalla poesia futurista russa.
Il suo esordio poetico avvenne negli anni ‘20, quando iniziò a scrivere componimenti innovativi che rompevano con la tradizione ottomana, adottando un linguaggio semplice e diretto, vicino alla sensibilità popolare. Le sue prime raccolte, come 835 Satır (835 Versi, 1929), segnarono l’inizio di una nuova poesia turca, libera dai rigidi schemi metrici e orientata verso un lirismo intenso e appassionato.
L’impegno politico segnò profondamente la sua vita e la sua opera. A causa delle sue idee marxiste, fu arrestato più volte e trascorse lunghi anni in prigione, durante i quali continuò a scrivere alcune delle sue poesie più celebri, tra cui Lettere dal carcere a Taranta-Babu (1935) e Poema dell’uomo (1947). Il tema della libertà, della speranza e dell’amore per l’umanità permea la sua produzione, rendendolo una delle voci più autentiche della poesia mondiale.
Dopo essere stato rilasciato nel 1950, Hikmet fu costretto all’esilio e visse tra l’Unione Sovietica e diversi paesi dell’Europa orientale. La sua poesia continuò a evolversi, mantenendo sempre uno stile essenziale e coinvolgente, capace di parlare direttamente al cuore dei lettori. Tra le sue opere più famose si annoverano Il più bello dei mari, Non vivere su questa terra come un inquilino e Il mio funerale, tutte caratterizzate da un profondo senso di umanità e dalla convinzione che l’amore e la speranza possano vincere ogni avversità.
Hikmet morì il 3 giugno 1963 a Mosca, lasciando un’eredità poetica che continua a ispirare generazioni di lettori in tutto il mondo. La sua capacità di fondere lirismo, impegno politico e una visione universale della vita lo ha reso una delle figure più significative della letteratura contemporanea.
La scelta
La poesia celebra la bellezza delle possibilità future, suggerendo che la vita migliore è quella che non abbiamo ancora vissuto. Con uno stile semplice e diretto, Hikmet usa il mare come metafora per rappresentare l’ignoto e le opportunità che ci attendono. Ogni verso esplora l’idea di desiderio e speranza per ciò che potrebbe venire, facendo del futuro una promessa di bellezza e scoperta. La poesia invita a non fermarsi mai nella ricerca di nuove esperienze e a guardare oltre il presente.
Il mare, come simbolo di vastità e avventura, diventa l’immagine di ciò che non è stato ancora esplorato, proprio come le nostre vite e i nostri cuori. Le mani, come vele, sono pronte a solcare quest’infinito potenziale. Il poeta dipinge una visione ottimistica della vita, in cui ogni passo è un’opportunità di crescita, una possibilità di scoperta. La ripetizione del verso “Il più bello dei mari è quello che non abbiamo ancora visto” enfatizza l’invito a guardare oltre, sempre verso nuovi orizzonti. L’autore ci sprona a non accontentarci mai, ma a cercare continuamente la bellezza che ancora ci sfugge, a cogliere ciò che la vita ha da offrire prima che sia troppo tardi. La poesia, pur nelle sue parole semplici, è un messaggio potente di speranza e rinnovamento.
Il più bello dei mari
Il più bello dei mari
è quello che non abbiamo ancora visto.
Le più belle delle nostre vite
sono quelle che non abbiamo ancora vissuto.
E la più bella delle nostre parole
è quella che non abbiamo ancora detto.
A volte il nostro cuore è un mare
che non abbiamo ancora solcato.
Le nostre mani sono le vele
che non abbiamo ancora spiegato.
Il più bello dei mari
è quello che non abbiamo ancora visto.
I versi invitano a guardare oltre il presente e a non fermarsi a ciò che abbiamo già vissuto. La poesia diventa un invito a non accontentarsi della realtà, ma a sognare un futuro migliore, a credere in ciò che non è ancora stato realizzato. Il mare, simbolo di vastità e di orizzonti sconfinati, rappresenta il desiderio, l’incompleto e il cammino che ancora ci attende. Ogni verso ci spinge a desiderare ciò che è ancora lontano, ad afferrare ciò che non abbiamo ancora ottenuto, a credere nel potenziale che ogni giorno ci offre, come un viaggio che non finisce mai.
Antonio Onorato

È un poeta e coach olistico nato 57 anni fa a Potenza, ma con radici anche nella Rue de Cheval Blanc, un luogo che ha segnato il suo percorso emotivo e letterario. La sua vita è un viaggio di emozioni vissute con intensità, che riversa nella scrittura, nelle sue poesie e nei racconti. La sua produzione letteraria si nutre di riflessioni spontanee, talvolta taglienti, ma sempre sincere, attraverso le quali esplora le complessità dell’animo umano e il significato profondo delle esperienze quotidiane.
Non ama mettere in primo piano i successi ottenuti in concorsi letterari, preferendo concentrarsi sui traguardi che devono ancora venire, quelli legati al dono di emozioni genuine e al raccontarle nei minimi dettagli. La sua poesia si distingue per l’abilità di descrivere in maniera profonda e accurata i sentimenti, cercando sempre di offrire uno spunto di riflessione e consapevolezza.
Oltre alla scrittura, Antonio Onorato è anche un coach olistico, una professione che gli consente di entrare in contatto profondo con le persone, ascoltando le loro sofferenze e cercando di guidarle verso una maggiore serenità. In questo ruolo, la sua scrittura diventa un mezzo per esorcizzare le emozioni più complesse, trasformandole in strumenti di crescita personale. Con il suo impegno quotidiano, l’autore cerca di rendere il mondo un posto migliore, sia attraverso il suo lavoro di coach che attraverso la sua poesia, che è un inno alla speranza, alla bellezza e alla possibilità di rinascita.
La scelta
La poesia esplora il tema della perdita e delle opportunità non colte, dipingendo con delicata intensità l’idea di ciò che avrebbe potuto essere, ma che non è stato. Il poeta inizia con una serie di immagini potenti e universali che parlano di desideri condivisi, come acqua, cibo, fuoco e viaggi, tutti simboli di una vita piena di connessione e intimità. Ogni “avremmo potuto” sottolinea un potenziale inespresso, un amore che non ha avuto la possibilità di fiorire completamente.
Il linguaggio della poesia è semplice, ma carico di emozione: Onorato evoca immagini di una connessione profonda che non si è mai concretizzata. La poesia diventa una riflessione sull’amore mancato e su una relazione che avrebbe potuto essere intensa, ma che si è persa nel tempo. “Ci resta ciò che abbiamo sbagliato” esprime il dolore di non aver colto le occasioni.
Il finale, “senza più parole / senza più scuse / in un mondo / senza più noi”, segna la fine della storia, con un senso di rimpianto per ciò che è andato perduto. Onorato riesce, con pochi versi, a trasmettere l’intensità della riflessione sulla caducità della vita e delle relazioni, un invito a vivere pienamente il presente.
Saremmo potuti essere
Saremmo potuti essere
acqua per dissetarci
cibo per nutrirci
tempo per raccontarci
avremmo potuto avere
fuoco per scaldarci
serate per innamorarci
nuovamente
viaggi per emozionarci
Saremmo potuti diventare
occhi negli occhi
bocche che si cercano
corpi che sudano
amore
Ci resta ciò che abbiamo
sbagliato
senza più parole
senza più scuse
in un mondo
senza più noi
La composizione riflette sulla possibilità delle cose che non sono mai state. La poesia esplora le tante opportunità non colte, ma lo fa senza accusare, piuttosto con una sorta di rassegnata consapevolezza. Le immagini che emergono – acqua, cibo, fuoco, viaggi – suggeriscono desideri, necessità, emozioni che non hanno trovato la loro realizzazione. La ripetizione del “saremmo potuti essere” sottolinea l’incompleto e l’inespresso, mentre l’ultimo verso, “in un mondo senza più noi”, trasmette il dolore della separazione, il vuoto lasciato da ciò che non è stato. La poesia lascia al lettore un senso di perdita, ma anche una riflessione sulla fragilità delle relazioni e sulla bellezza di ciò che avremmo potuto vivere.