Doveva essere la nuova terra promessa, l’utopia di un mondo parallelo alla realtà in cui concetti come libertà, decentramento, parità e uguaglianza fossero pietre miliari da cui poi proseguire verso una comunicazione e un’informazione democratica.
Oggi a ben vedere di questi proclami iniziali è rimasto ben poco, mentre si sente forte il grido di restituire internet agli utenti e ai cittadini per contrastare il dominio dei nuovi monopolisti dei dati, forti di nuove forme di disuguaglianza e di discriminazioni arbitrarie con i loro algoritmi. Si palesa dunque una seconda necessaria utopia che vada contro la brama di potere e di controllo statale su ogni nostra forma di comunicazione che sia sotto forma di messaggio, mail o semplice navigazione nel web. L’obiettivo è di tornare a far sì che il proclama iniziale di un web per tutti, non per pochi venga riconosciuto come legge sovrana e punto di snodo della rete.
La mission urgente è di ridemocratizzare la rete, renderla finalmente a misura d’uomo, così come sostenuto da tempo dal padre del web, Tim Berners-Lee, ovvero adottare una serie di misure mirate a promuovere uguaglianza, accesso, libertà, così da offrire una via d’uscita da logiche in cui chi vince piglia tutto. Fuggire da questa dialettica di dominio di pochi sulla moltitudine, significa innanzitutto abolire l’idea di un individuo-utente come prodotto finale, moneta di scambio per ottenere servizi all’apparenza gratuiti. I dati personali devono tornare in possesso del loro legittimi proprietari, ovvero gli utenti, e ognuno di noi deve poter decidere a chi affidarli, con quali limiti e per quali scopi. La rivoluzione deve partire proprio nel tornare a riacquisire la nostra identità svenduta troppo facilmente a sistemi automatici che ci incastrano in categorie che spesso ignoriamo, ma che finiscono per condizionare la nostra vita sociale.
È necessario lottare per spezzare i nuovi monopoli del web, riscrivere una normativa in grado di definire gli interessi di bottega di molte corporation della new economy con in mano intere banche dati, ovvero nuovi capitali stavolta umani sui quali investire e andare sul profitto sicuro. Lo Stato rimane l’ultimo e sicuro baluardo al quale aggrapparsi per difendere la pseudo democraticità del progresso digitale. Sorvegliare ciò che fanno le istituzioni dei big data, per esempio, non significherebbe entrare nel merito di una rete libera da controlli, ma vorrebbe dire porsi come garante ultimo della democraticità di una piattaforma così invasiva per natura. Parimenti ci si dovrebbe aprire a una vera conoscenza e cultura digitale, promuovere cioè l’insegnamento di un uso responsabile, attento e critico della rete nella scuola dell’obbligo, senza avvilupparsi in progetti aperti a produrre l’ennesima app di turno.
L’educazione è anche capire e frenare i troppo facili entusiasmi, per esempio, su quella che è l’Internet delle cose (Internet of Things), tecnologie altamente invasive della nostra privacy. I problemi sul tappeto sono tanti rispetto agli entusiastici proclami iniziali. L’architettura della rete va salvata partendo dal concetto di neutralità del web e di sistemi di crittografia e formule algoritmiche oggi ad appannaggio esclusivo di potentati economici e governi in delirio di sicurezza, indifferenti a quei diritti fondamentali che valgono in rete come fuori, e andrebbero difesi, sempre.