«La realtà è come un puzzle: ognuno ne possiede un pezzo e, in assenza degli altri, lo spaccia per verità assoluta»
29 maggio 2019. “Se fossimo stati convinti che il Presidente non aveva responsabilità nel Russiagate lo avremmo detto, e non siamo però arrivati a determinare se Donald Trump abbia o meno commesso un crimine”. Parola di Robert Mueller, procuratore speciale che per oltre un anno e mezzo ha guidato le indagini sul soprannominato “Scandalo Russiagate”. Repetita iuvant: questo caso mediatico coinvolge gli Stati Uniti e, appunto, la Russia, tacciata di aver manomesso le elezioni presidenziali del 2016 in modo da far sì che Donald Trump vincesse. “Abbiamo agito sapendo che è regola del Dipartimento di Giustizia non incriminare un presidente in carica e dunque ci siamo mossi in quel limite – dichiarava Mueller – ora però spero e mi aspetto che questa sia l’unica occasione in cui debba parlarne perché se fossi costretto a fare altro mi limiterei a ripetere quel che è scritto nelle 448 pagine di rapporto, quel documento è già la mia testimonianza”.
Col senno di poi quelle parole sono risultate uno specchietto per le allodole, visto che i fatti le hanno smentite dalla prima all’ultima. Le pagine del rapporto, come in un miracolo che probabilmente nessuno voleva, si sono moltiplicate, raggiungendo le quattro cifre di estensione totale. Secondo queste mille pagine, che dovrebbero e potrebbero essere assunte per tutto fuorché che per oro colato, la Russia ha interferito con l’elezione di Trump di quattro anni fa. La Commissione Intelligence del Senato, composta da maggioranza repubblicana, ha optato per un approccio bipartisan: lo scandalo non sarebbe un’invenzione dei media, ma si sarebbero toccate altre vette di assurdità, ma un qualcosa di effettivamente esistito. Il problema sussiste nel fatto che non si ha la certezza categorica e assoluta che l’intervento del Cremlino abbia effettivamente alterato i risultati finali, portando alla Casa Bianca colui che non avrebbe dovuto arrivarci.
L’unico punto di Mueller che ancora regge è l’assenza di accuse dirette contro Trump. Come volevasi dimostrare, direbbero i matematici. Mancano le prove effettive, così come paventate dal procuratore speciale, che “i legami fossero molto più estesi e preoccupanti di quanto fosse stato pubblicamente reso noto”. Il nuovo rapporto snocciola dei nomi, che ancora devono ricevere riscontri effettivi con la realtà dei fatti ma che potrebbero aver avuto legami con Mosca e dintorni: Paul Manafort, Konstantin Kilimnik, Jared Kushner e Donald Trump jr. “Nessuna inchiesta è stata più esaustiva di questa – asserisce Marco Rubio, senatore repubblicano e presidente ad interim della Commissione Intelligence – la commissione ha trovato prove inconfutabili delle interferenze russe, anche se non vanno prese come certe”. Il vice presidente della Commissione, di parte democratica, Mark Warner parla di “prove di un livello sconvolgente di contatti tra lo staff di Trump e agenti del governo russo che è una vera minaccia per le nostre elezioni”.
Praticamente ognuno dice la sua e non si arriva ad un dunque, che è l’obiettivo che tutti auspicano. Perché le vere preoccupazioni, più di eventuali pesanti manomissioni delle urne del 2016, sono essenzialmente due: che l’immagine di Trump risulti screditata in vista di novembre (prevedibile timore dei sostenitori di parte repubblicana) e che possano verificarsi altre interferenze nelle elezioni 2020.