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LE PORTATRICI CARNICHE

Guerre sante, guerre giuste, guerre di deterrenza di una futura e più vasta guerra, guerre necessarie, guerre difensive…guerre, comunque sconfitte dell’Umanità. Appartengo alla generazione che la guerra non l’ha vissuta, né come combattente e nemmeno come vittima. Appartengo alla generazione che la guerra l’ha, tuttavia, conosciuta attraverso i racconti delle generazioni precedenti alla mia: racconti di fame, racconti di morti, racconti di torture, racconti di deportazioni, racconti di dolore impresso nella pelle, nella mente e nel cuore. Racconti scioccanti raccontati da persone scioccate al punto di non chiedersi se fosse pedagogicamente corretto parlarne ai bambini. Tanto le lacerazioni erano vive e profonde che non si ponevano la domanda i genitori, i nonni e persino i buoni maestri di quella buona scuola in cui erano tanti gli insegnanti capaci di educare all’Umano e tanti gli alunni capaci di ascoltare cosa veniva loro insegnato. I nonni di guerre mondiali ne ricordavano ben due, i genitori una, il buon maestro della mia scuola elementare ricordava la sua deportazione. Chiunque fosse a raccontare lo faceva sforzandosi di contenere i lucciconi agli occhi e la fermezza della voce, nel palese intento di far capire non solo quale carneficina avesse provocato la guerra da loro vissuta ma anche di far luce sulle tante storie che figuravano, allora, ancora non scritte nei libri di storia. I nomi e le gesta dei signori della guerra entrano di diritto nei libri di storia, come eroi o come carnefici, essi ci sono. I martiri vengono ricordati con un numero collettivo, tra essi molti finiscono con l’essere (giustamente) celebrati e molti altri finiscono (ingiustamente) nell’oblio fino a quando qualcuno non si prefigge di andarli a cercare nella terra in cui o per cui hanno dato la vita, uccisi per mano di un altro simile armato, protagonista o strumento di una logica che rinnega la volontà di dovere vivere nel proprio spazio di terra, di professare la propria confessione religiosa o i propri dogmi ideologici senza avere la pretesa di imporli oltre i confini del proprio spazio di terra.


Quando si va a scavare nella Storia si scoprono tante storie mai raccontate e ci si rende conto di quanto farebbe bene all’Umanità che venissero raccontate.
Ci si rende conto, peraltro, che tanti personaggi femminili non sono stati trattati con la stessa dignità e lo stesso rispetto riservati a quelli maschili. La storia delle portatrici carniche ne rappresenta un esempio eclatante.
In Carnia, regione storico-geografica nel nord del Friuli Venezia Giulia, ai confini con l’Austria (oggi parte della provincia di Udine), durante il primo conflitto mondiale stanziava il XII Corpo d’Armata dell’Esercito italiano.
Se in quel territorio il confine avesse ceduto le truppe austriache avrebbero avuto diretto accesso alle valli sottostanti e da lì avrebbero potuto proseguire l’invasione dell’Italia.
Questa linea di difesa italiana non cedette mai anche grazie alle Portatrici, che svolsero la loro attività dall’agosto 1915 all’ottobre 1917 e smisero solo quando i soldati furono costretti ad abbandonare le loro postazioni.
Era un territorio impervio: non c’erano strade ma solo sentieri e pietraie per cui neanche i muli potevano essere utilizzati per i trasporti, soprattutto quando c’era la neve alta. I magazzini militari erano nel fondovalle e, per tale motivo, fu chiesto alle donne dei paesi della valle un aiuto per i circa 12.000 soldati in trincea.


Ai battaglioni sulle vette occorrevano viveri, medicinali, munizioni.

Non furono obbligate per cui il loro non era un corpo militare ma tutte accorsero. «Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan» (andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame) divenne il loro motto.

Avevano tra i 15 e i 60 anni e, portando al braccio un nastro rosso col numero del reparto a cui dovevano fare riferimento, per quasi due anni dal fondovalle salirono ogni giorno sulle cime delle Alpi a portare viveri, medicinali, armi alle truppe in difesa del fronte. Le portatrici riempivano le loro gerle di tutto il necessario e affrontavano dislivelli in salita che raggiungevano anche i 1.200 metri.

Venivano divise in gruppi di 15-20 e marciavano in ripida salita facendo grande attenzione a ogni singolo movimento durante un percorso che durava dalle 2 alle 5 ore fino a giungere alla linea del fronte situata sulle creste delle montagne.

La fatica era disumana: le gerle stracariche pesavano come macigni sulle spalle provocando spesso ferite e dolori insopportabili e spesso per tutta la giornata dovevano farsi bastare solamente una patata bollita.

Una volta arrivate a destinazione si fermavano per una breve pausa prima di affrontare la discesa, ritornare a valle e riprendere le faccende della vita quotidiana.

Il percorso diventava ancora più tortuoso in inverno, con la neve che arrivava alle ginocchia e rendeva estremamente più difficile ogni singolo passo assieme al gelo che penetrava fino alle ossa.

Per affrontare alture scoscese volte a raggiungere la cima, le donne indossavano gli scarpetz (foto in basso), calzature tradizionali carniche, fatte in casa con stoffe e velluti.

Grazie alla maestria di secoli di conoscenza delle vette e della loro morfologia impararono a confezionare scarpe resistenti alle pietre e alle rocce.

Le portatrici formarono un vero e proprio corpo ausiliare con una forza pari a un battaglione di 1.000 soldati. Ciascuna di loro possedeva un libretto di riconoscimento dove venivano annotate le presenze, i viaggi compiuti e i materiali trasportati a ogni salita. Inoltre, ognuna indossava un braccialetto rosso di riconoscimento con sopra inciso lo stesso numero del libretto. Il loro compenso era di 1,50 centesimi a viaggio, corrispondente a 3,50 euro attuali e venivano retribuite mensilmente.
Al ritorno a valle a volte riportavano i morti in barella e si occupavano anche della sepoltura. Alcune furono ferite dai colpi dei cecchini austriaci e una madre di quattro figli, Maria Plozner Mentil purtroppo perse la vita.
Le Portatrici carniche non furono mai militarizzate, perciò non ricevettero mai il sostegno economico riservato ai combattenti e, per troppo tempo, queste figure, essenziali per l’Italia durante la Prima guerra mondiale, rimasero nel dimenticatoio più totale. Chi però aveva combattuto al fronte e le aveva conosciute, nutriva per loro lo stesso rispetto riservato ai militari.
Tre di loro rimasero ferite: Maria Muser Olivotto, Maria Silverio Matiz (entrambe di Timau) e Rosalia Primus da Cleulis. Una di loro, Maria Plozner Mentil, cadde colpita da un cecchino il 15 febbraio 1916.

Come alcuni cognomi suggeriscono non tutte le portatrici erano di cultura friulana, essendo alcune provenienti da paesi friulani di minoranza tedescofona (Sappada, Timau) e slovena (Resia).

L’ultima portatrice carnica vivente è stata Gallizia Angela Rovedo fu Silvestro, nata a Bevorchians (Moggio Udinese) il 13 settembre 1903, che operò sui monti della Vall’Aupa, fra il monte Cullar e la Crete dal Cronz; è morta a Bergamo il 23 novembre 2005 all’età di 102 anni.

Maria Plozner Mentil è divenuta il simbolo delle Portatrici, l’unica donna a cui sia stata intitolata una caserma, oltre che la prima a ricevere, anche se solo nel 1997, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

Maria Plozner Mentil era una giovane madre quando venne colpita da un cecchino mentre saliva a consegnare i rifornimenti. Fu sepolta con gli onori militari sotto i bombardamenti, in presenza di tutte le sue compagne e di un picchetto militare. Ora si trova nel Tempio Ossario di Timau, insieme a 1626 alpini, fanti e bersaglieri. All’ingresso campeggia la scritta: «Ricordati che quelli che qui riposano si sono sacrificati anche per te».
Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nel 1997, volle andare a consegnare la medaglia al valore militare alla memoria di Maria e le croci di Cavaliere alle poche superstiti ormai ultranovantenni.

Delle portatrici carniche parlerò nel mio programma radiofonico settimanale in onda in diretta martedì alle 12.15 e, in replica, giovedì p.v. alle ore 17.30 su Radio Regional (AM – Onde Medie sulla frequenza 1440 kHz o al link:
https://www.regionalradio.eu/onair/shows/storia-storie/

In podcast al link:
https://www.regionalradio.eu/onair/podcast/storiaestorie/

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Data:

18 Marzo 2025

One thought on “LE PORTATRICI CARNICHE

  1. Le Donne, il sesso debole? La donna ha in sé una magia, una capacità di resilienza indomabile. Dal suo corpo, anzi dalla sua mente, scaturisce una forza vulcanica inesauribile. L’ obiettivo è la sua benzina. Il bene della comunità è la spinta che la porta a superare le sue forze. VIVA LE DONNE!! e GRAZIE PORTATRICI per il vostro ESEMPIO.

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