Prima del Diciannovesimo secolo era una pratica diffusa in tutto il mondo mentre oggi è vietata da numerose convenzioni internazionali e considerata una grave violazione dei diritti umani. Tuttavia, secondo l’ultimo rapporto UNICEF “Ending child marriage: Progress and prospects”, attualmente sono 700 milioni (circa il 10 per cento della popolazione del pianeta) le donne che si sono sposate prima di aver compiuto la maggiore età. La roccaforte di questa centenaria tradizione è l’India, che ospita il 40 per cento dei matrimoni infantili a livello globale. Sebbene il Prohibition of Child Marriage Act del 2006 abbia fissato l’età legale minima a 18 anni per le donne e 21 per gli uomini, una ragazza indiana su tre è una “sposa bambina”.
In India si tratta di un fenomeno complesso che affonda le radici in riti religiosi, consuetudini sociali e cieche superstizioni, ma la cui origine culturale è tuttora molto dibattuta. Alcuni la fanno risalire all’invasione musulmana del Tredicesimo secolo, quando i conquistatori rapirono e violentarono tutte le donne induiste non sposate; da qui, la falsa credenza che il matrimonio protegga le ragazze da episodi di violenza e stupri. Secondo altri, invece, fu ai tempi feudali del Sultanato di Delhi che il matrimonio combinato dei figli iniziò a essere visto come un vero e proprio mezzo per consacrare accordi e alleanze fra le famiglie. Ai giorni nostri, però, la ragione principale che contribuisce a perpetuare questa tradizione è la povertà endemica che affigge il subcontinente, in particolare le comunità rurali. All’interno della patriarcale società indiana, le bambine, considerate un peso economico a causa delle doti, sono figlie su cui non vale la pena investire poiché il loro unico scopo nella vita deve essere badare alla casa e alla famiglia. Il matrimonio combinato diventa così una scappatoia, un modo per ridurre le spese riguardanti l’educazione e il sostentamento delle figlie, che, una volta sposate, lasciano la propria casa (e in certi casi anche la propria comunità) per trasferirsi a vivere all’interno del nucleo familiare del marito.
Le ripercussioni sulle “spose bambine” sono pesantissime: costrette a lasciare la scuola, vengono private di un’istruzione e delle competenze per un futuro lavoro all’interno della comunità; relegate in casa e socialmente isolate, sono spesso vittime di episodi di violenza domestica e abusi sessuali, che accrescono il rischio di contrarre malattie infettive come l’HIV. A causa della loro giovane età, inoltre, tendono a soffrire maggiormente di complicazioni durante il parto – ragione principale di mortalità per le ragazze fra i 15 e i 19 anni – e i loro figli hanno più probabilità di non sopravvivere al primo anno di vita o di soffrire di gravi disturbi, come malnutrizione e ritardo nello sviluppo fisico e cognitivo.
Nonostante l’adozione del Prohibition of Child Marriage Act, il matrimonio infantile in India rimane una questione complicata anche sul piano legale, a causa della mancata registrazione di moltissimi matrimoni e delle regolari esenzioni concesse ai musulmani per motivi religiosi (sancite dallo Sharia Act del 1937). Così, mentre nelle aule di tribunale e in Parlamento si continua a dibattere sull’argomento, il 30 per cento delle bambine indiane resta intrappolato in matrimoni forzati, in tradizioni antiche ancora socialmente accettate in tutto il Paese. Nel tentativo di sradicare il problema, alcuni Stati (come Rajasthan, Karnataka e Haryana) hanno lanciato iniziative che fanno leva su un allettante aiuto economico: progetti come Apni Beti, Apna Dhan (letteralmente “Mia figlia, il mio patrimonio”), infatti, consentono alle ragazze nubili di ricevere al diciottesimo anno d’età una consistente donazione statale, incoraggiando in questo modo i genitori a ritardare le nozze e a valorizzare la figura della figlia all’interno della famiglia. Tuttavia, il fenomeno delle “spose bambine” indiane rimane inesorabilmente legato ad altre gravi violazioni dei diritti umani che persistono nel Paese. Per questo motivo, varie organizzazioni umanitarie, come Girls Not Brides, sono da anni impegnate in un’essenziale opera di sensibilizzazione delle comunità per quel che concerne i diritti dei minori, affrontando temi come il diritto alla salute, all’istruzione e alla protezione dalla violenza.
Sebbene il numero di matrimoni infantili sia in calo a livello mondiale, l’UNICEF ha previsto che di questo passo all’India non basteranno altri 50 anni per estirpare il fenomeno delle “spose bambine”, prigioniere di una tradizione che condanna la donna a una perenne condizione di inferiorità e continua ad alimentare un circolo vizioso di povertà, negando alla popolazione un reale sviluppo sociale ed economico.