Sempre nel 1991 il mensile POESIA dedicava un articolo ad Alfred Tennyson e lo intitolava Alfred Tennyson – Un vittoriano perfetto.
L’articolo era firmato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tratto da un volume sulla letteratura inglese, uscito in quegli anni. Il traduttore invece era Roberto Rossi, poeta e traduttore nato a Torino nel 1956. Il quale scriveva: “ Alfred Tennyson, il poeta inglese più rappresentativo dell’età vittoriana, non è un autore molto conosciuto da noi. Di lui il lettore italiano può trovare, in un’edizione degli anni 70 pubblicata da Einaudi e da tempo esaurita, praticamente soltanto In memoriam, splendido monumento funebre eretto dal poeta a un suo intimo amico. In particolare dei Poems of 1842, opera da cui sono tratti i testi qui presentati, non esistono che traduzioni estemporanee per quanto autorevoli, si veda ad esempio la versione di Ulisse dovuta a Pascoli; essa però è in esametri barbari e non rende affatto il ritmo dell’originale. Leggendo i poemi del 1842, rilevandone appunto la componente problematica massicciamente rappresentata, ci si trova almeno all’inizio di fronte ad un competentissimo e serissimo parodista, cioè a uno che viene dopo, a dire in modo riflesso, più elegante ma più estenuato, ciò che altri hanno già detto prima, ma con ben altro, magari barbarico, vigore.”
Sarà dunque il caso di conoscere un po’ meglio il poeta inglese di cui ci stiamo occupando.
(Somersby, Lincolnshire, 1809 – Aldworth, Surrey, 1892). Autore precoce e fecondo, fu largamente apprezzato dai suoi contemporanei, per la grazia elegiaca emanata dai suoi versi melodiosi; risentì poi della reazione che condannò in blocco l’età vittoriana; nel secolo successivo si è avuta tuttavia una più serena valutazione storica della sua arte, apprezzata e tradotta anche in Italia. fu precocemente lettore appassionato di poeti, iniziando giovanissimo a comporre le prime poesie; nel 1827 pubblicò con i fratelli Charles e Frederick una raccolta di versi, Poems by two brothers, pieni di echi byroniani. Durante gli studi a Cambridge pubblicò i Poems, chiefly lyrical (1830), che lo mostrano chiaramente al seguito di Coleridge e di Keats; alcuni dei suoi componimenti migliori (The lady of Shalott, Oenone, The palace of art, The lotus-eaters) figurano in una raccolta di Poems del 1832 (pubbl. con data 1833). La morte del caro amico Arthur Hallam, avvenuta nel 1833, quando aveva già da due anni abbandonato l’università, gli ispirò In memoriam, serie di poesie che, continuate a lungo e pubblicate anonime (1850), vogliono descrivere la graduale trasformazione del rimpianto per il defunto in un sentimento di più vasto amore per Dio e l’umanità, ma che, senza arrivare a rendere questo superamento, esprimono i dubbi religiosi del poeta. Con i Poems (2 voll., 1842) T. ottenne fama di massimo tra i giovani poeti: in questa raccolta, accanto a poesie, in parte rifuse, delle raccolte precedenti, erano comprese Locksley Hall, Morte d’Arthur, Ulysses, Sir Galahad e altri versi divenuti famosi. Pubblicò poi (1847) un racconto fantastico in versi inteso a satireggiare il movimento femminista, The princess, a medley. Nominato poeta laureato (1850) in successione di W. Wordsworth, nel 1855 pubblicò Maud and other poems, e tra il 1859 e il 1885 gli Idylls of the king, dove la leggenda arturiana diveniva quasi adombramento dei modi, degli ideali e delle delusioni dell’epoca della regina Vittoria; la serie completa apparve nel 1889. Nello stesso periodo compose alcuni poemetti narrativi ispirati dalla vita campestre inglese: Enoch Arden; Aylmer’s field; Northern farmer: old style. T. tentò anche il dramma con Queen Mary (1875), Harold (1877), Becket (1879), The falcon (1879), The cup (1881), The promise of May (1882). Nel 1883 accettò il titolo di lord offertogli dalla regina e divenne barone di Aldworth e Farringford. L’agiatezza e gli omaggi internazionali non impedirono che la concezione della vita si colorasse, in T., di pessimismo, evidente in Locksley Hall sixty years after, pubblicato in quel 1886 in cui T. fu colpito dalla perdita del secondogenito Lionel. Nella raccolta successiva, Demeter and other poems (1889), si trova la poesia che si può considerare il suo testamento poetico, Crossing the bar. Una grazia elegiaca, quasi virgiliana, emana dai primi e fondamentali motivi di T., artefice consumatissimo di versi melodiosi e di squisitezze alessandrine, creatore d’un mondo fiabesco e decorativo, che soltanto lo sgomento dinanzi ai progressi scientifici, da cui fu condotto al dubbio e all’agnosticismo, venne a incrinare. La nota biografica, tratta da www.treccani.it, è stata riprodotta integralmente. Ci viene additato un poeta elegante, raffinato ancorché non meramente decorativo: la condanna in blocco dell’età vittoriana avvenuta nel XX Secolo non sempre è stata fatta col dovuto discernimento. Ora che il distacco emotivo e temporale è maggiore, molto potrebbe essere rivisto. Non è certo il nostro còmpito. Rileggiamo però ciò che scriveva Filippo Tomasi di Lampedusa: “La ragione per la quale i personaggi degli Idylls non sono riusciti non è il loro vittorianesimo, è il fatto ben più importante che non sono vivi. Questo difetto di energia drammatica è ovviamente ancor più visibile nel teatro di T.: vi è una tragedia, Queen Mary, che non presenta un briciolo di interesse, un Harold nel quale il protagonista vorrebbe essere una scimmiottatura di Amleto e non riesce neanche a questo; fino ai limiti estremi della vecchiaia T continuò a scrivere con non diminuito fervore, componendo versi sempre di compiuta bellezza formale. Questo che ho detto è forse la più severa critica del poeta: egli fu un artista che quando ebbe raggiunto la padronanza dei propri mezzi tecnici raggiunse tutto: gli amori, i dolori, gli anni passarono su di lui senza gravarlo del peso di una piuma; egli continuò ad esprimere quegli stessi sentimenti semplici puri ed onesti che aveva a vent’anni, in modo che le prime poesie restano quasi le migliori.” Insomma, tra il saggista e il traduttore si intravedeva una qualche divergenza. Non ci resta che proporre un brano tratto da Choric song, Canto Corale. Sarà chi ci legge che, se vorrà, potrà approfondire e valutare.
( II)
Why are we weigh’d upon with heaviness,
And utterly consumed with sharp distress,
While all things else have rest from weariness?
All things have rest: why should we toil alone,
We only toil, who are the first of things,
And make perpetual moan,
Still from one sorrow to another thrown:
Nor ever fold our wings,
And cease from wanderings,
Nor steep our brows in slumber’s holy balm;
Nor harken what the inner spirit sings,
“There is no joy but calm!”
Why should we only toil, the roof and crown of things?
(Traduzione di Roberto Rossi)
Perché ci opprime questa pesantezza,
E un acuto malessere ci strema,
Mentre tutto ha un riposo da stanchezza?
Tutto ha un riposo: perché mai penare
Soltanto noi, innanzi a tutto i primi,
E trar perpetui lai,
Sospinti da un dolore verso l’altro:
E non piegar le ali,
E cessar dal vagare,
Né lustrar gli occhi in sacri e blandi balsami;
Né ascoltare lo spirito più intimo:
“Solo la quiete è gioia!”
Di tutto somma e cima, perché penar sol noi?