Ritroviamo la rubrica Tradizione e traduzioni nel n. 41 del mensile POESIA, nel giugno 1991, curata nell’occasione da Luca Canali, il quale affermava: “ Tradurre è un’arte difficile. E mentre c’è una discreta vigilanza sulle traduzioni dei classici moderni, i più incredibili arbìtrî sono compiuti sui classici antichi, in specie sui latini.
E se la poesia è anche – e forse soprattutto – musica, non si capisce perché i traduttori si arroghino il diritto di tradurre versi lunghi con versi brevi e di fare di un testo latino di 12 versi un testo italiano di 13 o più versi. A parte fraintendimenti e violenze di varia natura. Alcuni esempi: di un verso semplice come vivamus mea lesbia atque amemus, carme quinto, si osservi la sofisticazione che ne è stata fatta incomprensibilmente da Cetrangolo e da Ceronetti. Nessuno dei traduttori eccettuato il Cogni ha accolto l’amara inevitabilità del verso sei dello stesso carme. Solo il Cogni ha restituito il senso di Nox … dormienda con dobbiamo dormire gli altri non ci fanno neanche caso. […] Le traduzioni di Cogni sono estrose ma rispettose. Peccato che abbiano bisogno di un traduttore a loro volta.” Luca Canali, che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni (precauzionalmente https://it.wikipedia.org/wiki/Luca_Canali) non le manda a dire. Intanto cerchiamo di conoscere meglio Catullo.
Poeta lirico latino (n. Verona 84 a. C. circa – m. non prima del 54). Di agiata famiglia, andò a Roma appena indossata la toga virile e fu accolto nell’alta società e nei circoli letterarî più noti. Fu ben fornito di ricchezze con una casa a Verona e a Roma, una villa a Sirmione sul Garda, un’altra fra Tivoli e la Sabina. A Roma avvenne l’incontro e sorse l’amore per la donna che doveva essere la gioia e la tragedia della sua vita di poeta e d’uomo, ch’egli cantò sotto lo pseudonimo di Lesbia (con tutta probabilità Clodia, una delle sorelle di Publio Clodio Pulcro, moglie di Quinto Metello Celere). Non si sa quando cominciò l’amore tra C. e Lesbia; certo era cessato nel 55 a. C., ma già prima del 57 la morte del fratello aveva allontanato il poeta dalla sua donna; era stato un continuo succedersi di rotture e di riconciliazioni. Nel 57 C. seguì Gaio Memmio in Bitinia, forse anche per rimediare alle disastrose condizioni finanziarie, dovute alla sua prodigalità. Ne tornò senza aver ottenuto nulla, dopo essersi recato a piangere sulla tomba del fratello sepolto presso il promontorio Reteo. Tornato in Italia, cercò riposo e pace nella sua villa di Sirmione. Tali notizie si desumono dai suoi stessi carmi, dei quali egli fece non si sa quando una raccolta dedicandola a Cornelio Nepote. Ma il Liber giunto a noi (che quasi certamente, con i suoi 116 carmi, non contiene tutte le poesie composte dal poeta) non può corrispondere al lepidus libellus della dedica, anche perché contiene poesie più ampie e di argomento troppo grave per essere considerate nugae (cose leggere), come Catullo chiama i suoi versi. Forse il Liber fu messo insieme dopo la sua morte dagli amici, che adottarono non già un criterio cronologico ma quello della somiglianza delle forme metriche e dell’ampiezza dei componimenti.
Chi volesse approfondire può farlo al link https://www.treccani.it/enciclopedia/gaio-valerio-catullo
Ora veniamo ai traduttori citati da Canali. Oltre a Ezio Cetrangolo e Guido Ceronetti comparivano in quel numero: Salvatore Quasimodo, Enzo Mazza, Mario Ramous, Ferdinando Cogni.
Mario Rapisardi, verso la fine dell’800, affermava: “Traduttori famosi di questo o di quel carme abbiamo parecchi: bastano il Foscolo e il Conti per tutti, ma traduzioni generali di Catullo che non ci facciano ridere o vergognare, tolta quella del Puccini e la recentissima del Bocci, di cui non devo parlare, possiamo dire addirittura di non averne.
Il Puccini è buon latinista; traduttore piuttosto fedele, verseggiatore discreto; manca però di sentimento; intende Catullo, ma non lo sente; l’interpreta, non lo traduce.
I suoi versi sono senza rilievo, senza colore, non hanno il fuoco dell’anima, non risentono della situazione in che furono scritti; possono adattarsi a questo o a quell’altro carme indistintamente; son come gli abiti da nolo. I metri che sceglie fanno spesso a calci col sentimento del carme, somigliano alla musica di Petrella. Il carme ottavo, ad esempio, ch’è tutto pieno di sdegno e di malinconia, nella poesia del Puccini diventa tutt’al più un eroe di Metastasio […].”
Ben più recentemente Alessandro Fo, intervistato da Pangea, confessava: Non ho seguito, in realtà, una particolare strategia prefissata, ma mi sono affidato alla corrente dei carmi e alle loro escursioni lessicali e tonali (dalla brutale scurrilità – ma adibita sempre con intelligenza – alla più lambiccata raffinatezza), tentando soprattutto di non tradire troppo. Ogni traduzione è una rosa di compromessi. Ho cercato di mantenere il più possibile il testo d’arrivo nell’orbita di un italiano di oggi che non suonasse troppo letterario (e, più in particolare, di rimanere nei binari di una metrica impervia senza che il linguaggio venisse sacrificato a ragioni appunto prosodico-metriche). Tornando dunque al discorso di Luca Canali, egli non scherzava quando diceva che le traduzioni di Cogni hanno bisogno di un traduttore a loro volta: erano infatti in dialetto piacentino. Ecco dunque Vivamus, mea Lesbia, tradotta da Enzo Mazza e da Ferdinando Cogni.