Le stragi di migranti sono “crimini che offendono l’intera famiglia umana”, come ha detto Papa Francesco all’Angelus di domenica 30 agosto. Ormai non si fa a tempo a misurarsi con l’enormità di una tragedia, che subito la coscienza di chi si commuove è già devastata da un’altra catastrofe che si somma a quella che la precede. Si aggiunge, non si sostituisce.
Le cause profonde di una migrazione ormai sistemica e globale si ha poca voglia di comprenderle, però: quantomeno non si ha intenzione di parlarne apertamente, né di ascoltarle, perché chi dovrebbe discuterne sono i politici, l’alta finanza e le multinazionali, cioè coloro che così ammetterebbero apertamente colpe tanto chiare quanto scomode, e chi dovrebbe ascoltare, cioè noi, tenterebbe subito di rimuovere l’orrenda consapevolezza di essere complice, sia pure con poche possibilità di porre rimedio in tempi brevi, dei “crimini”.
Non è un caso, del resto, che la questione non sia più ancorata a fenomeni di povertà pura e semplice che spinge migliaia di sfortunati a lasciare il proprio Paese per sfamarsi in qualsiasi altra parte del mondo, ma riguardi territori ricchi di risorse, con grandi potenzialità di autogestirsi economicamente e svilupparsi pienamente, dove però le mani le hanno messe i ricchi di altre nazioni.
Di esempi ce ne sono tanti. Nella Repubblica Centrafricana, dove nel 2012 scoppiò una crisi umanitaria ormai dimenticata, molte aziende francesi, tedesche, cinesi e belghe libanesi, impegnate nel business del legname, hanno finanziato varie fazioni accusate di crimini di guerra per farli salire al potere e ottenere quindi accordi lucrosi per l’agognata materia prima (fonte: Global Witness).
In Eritrea si fugge per mancanza di lavoro e di futuro; l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite Ohchr racconta che i soldati vengono costretti a lavorare nelle aziende dello Stato legate a doppio filo con quelle straniere. Il denaro accumulato dal regime mantiene un potere autoreferenziale e le terre sono confiscate dallo Stato, costringendo alla povertà più assoluta il popolo.
Nel Ghana il governo ha svenduto gli asset quali acqua, petrolio, elettricità, telefonia, cacao, diamanti, in virtù delle pressioni delle istituzioni finanziarie che, per bloccare l’aumento del debito di questo Paese, pretendono l’imposizione di concessioni per lo sfruttamento delle materie prime e per le privatizzazioni delle terre.
Dinamiche simili in Zambia, mentre si ha notizia che in Benin i pomodori importati dall’Italia costano meno di quelli prodotti dal coltivatore africano, grazie ai fondi europei in favore dell’agricoltura, sicché l’impoverimento si aggraverà ancora di più. Se a queste situazioni, frutto di un capitalismo globalizzato che sembra ripercorrere le peggiori strade dell’inizio della sua storia, si aggiungono le destabilizzazioni conseguenti alle disastrose scelte strategico-militari occidentali in Medio Oriente e nel Nord Africa (leggi Saddam e Gheddafi), ivi compresa la recrudescenza del fondamentalismo religioso, il quadro si presenta in tutta la sua desolante chiarezza.
Mea culpa. Rimediare è possibile, ma si deve prendere coscienza che stiamo combattendo contro un nemico che è dentro di noi, dentro il nostro modo di pensare. Possiamo subito capire se siamo cambiati per davvero: la scoperta del giacimento del gas da parte dell’Eni in Egitto (altro Paese sull’orlo di una crisi dai risvolti terribili) ce ne fornirà l’occasione, per come sarà gestita, per chi sarà chiamato a banchettare, per chi sarà escluso, per chi avrà voglia di capire e di reagire contro i veri nemici dell’umanità.