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L’ETHOS TRAGICO DI ALEJANDRA PIZARNIK (1936 – 1972) – I^ Parte

Itinerario poetico-letterario

“Ora la ragazza trova la maschera dell’infinito
e rompe il muro della poesia”. (Alejandra Pizarnik)
“In attesa che un mondo venga portato alla luce dal linguaggio,
qualcuno canta il luogo dove si forma il silenzio”.
(Alejandra Pizarnik)
“Ciò che ci custodisce infinitamente
è il nostro essere senza protezione”. (Martin Heidegger)
Di fronte all’evidenza del divenire e alla crudeltà legata alla nascita e alla morte – una nascita e una morte confuse e sovrapposte – la metafisica del tragico in Alejandra ci indica l’unità di innocenza e colpa e il suo destino di eroina tragica. (Gabriella Bianco)

Introduzione

Parola…o presenza…triste come me, bella come il suicidio.
“Niente è più forte del silenzio.
Se non fossimo già con la nascita
gettati ciascuno in mezzo alle parole,
il silenzio non verrebbe mai rotto”.                                                                                     
(Rainer Maria Rilke, “Su Dio”)

“Mi nasconderò nel linguaggio, perché ho paura”.                                          
(Alejandra Pizarnik)

Il vissuto tragico e poetico di Alejandra Pizarnik si inserisce in una metafisica del tragico che le propone sempre e inevitabilmente le dimensioni del dolore e della morte come percezione tragica dell’esistenza, che trasforma il dolore in tragedia e costringe a vivere ed esistere in una tensione costante che presagisce la catastrofe.

La maschera di dolore che ha voluto indossare, il desiderio di comportarsi da straniera, da aliena, distante da sé e dagli altri, chiusa tra l’esclusività della sofferenza e la costante esposizione di se stessa – un dolore spesso esibito e imposto – rivelano una intimità con la morte, dove il dolore si colloca come costante avvertimento di morte.

Il dolore, come esperienza inevitabile tipica della nostra condizione umana, indica il nostro limite, si incorpora al sentimento della finitezza: nel dolore si esprime la precarietà del nostro stare al mondo. Così viveva Alejandra, costantemente sospesa nel nulla, imprigionata in un cerchio di straniamento che sempre più si chiudeva su di lei: il dolore aumenta l’angoscia, radicalizza la sofferenza.

Alejandra ha vissuto costantemente esposta al pericolo radicale di perdere se stessa, chiusa nel suo labirinto, approfondendo il tono affettivo del lutto, che si esprimeva in tutte le sue forme, nell’istanza del negativo e che irrompeva dal profondo del suo essere, nella forma di distruzione e autolesionismo.

Ma in Alejandra, tra fisico e psichico, la malattia si manifesta e le immagini della sofferenza si trasformano in un dolore annientante e selvaggio, che finisce per divorarla definitivamente. In questo contesto tragico, il dolore incalza, non lascia scampo, impedisce ogni orizzonte futuro, rende vana la speranza e corre verso l’inevitabile confronto con la morte:

“Ogni momento è intessuto di morte.
Divoro la furia come un angelo idiota
invaso dalle erbacce,
che gli impedisce di ricordare il colore del cielo”.

E così Alejandra, trascinata inesorabilmente dalla morte, diventa crudele contro se stessa e contro gli altri, nello sforzo di proteggersi, di sfuggire alla dicotomia originaria tra la vita e la morte. Il suo spirito trasgressivo tende a ribaltare i limiti, regalandoci una poesia che dura e il suo mito di poeta maudit che tende a fissare esteticamente il proprio vissuto, che da tonalità emotiva e psichica, tende a distanziarsi, nella sua opera, da una dimensione sentimentale e affettiva verso una dimensione onto-cosmologica, che assume le implicazioni di crudeltà e felicità. Tuttavia, separando la crudeltà dalla felicità, Alejandra va verso la propria distruzione e soccombe al proprio annientamento.

L’atteggiamento tragico, privo della sua funzione liberatoria, cade nella degenerazione dell’io, nella dissoluzione dell’identità: “Ritorno alla memoria del corpo, devo ritornare alle mie ossa in lutto, devo comprendere ciò che dice la mia voce”. Nell’infinito susseguirsi di istanti, l’inganno, l’autoinganno, la delusione si compongono, si scompongono e si distruggono. La vita di Alejandra Pizarnik finisce per svolgersi in attimi: “non c’è domani se l’oggi non è stato del tutto scontato”, intrappolata nell’incapacità di trascendere l’oggi.

Nel dimorare poetico, che presuppone l’apparizione di un “volto”, “Quando spero di smettere di aspettare, avviene dentro di me la tua caduta. Io non sono più che un dentro”: in assenza di un “tu” che presuppone un dialogo d’amore, è il tu dell’amore di cui bisogna imparare a fare a meno:

“Senza di te
mi prendo tra le braccia,
e arrivo con la vita
ad implorare fervore”.  

Nell’immagine entrano in gioco il desiderio e l’assenza e il tu, quell’interlocutore privilegiato, diventa la morte, che nella notte viene incontro al poeta:

“Tutta la notte ascolto
il richiamo della morte,
tutta la notte ascolto
il canto della morte”.

La morte getta la sua ombra, morte che è possibile comprendere metaforicamente solo pensando al silenzio. Nello spazio angoscioso della morte, Alejandra lancia il suo urlo, prologo e passaggio verso il silenzio della morte.

Nell’ethos di Alejandra, nella dimora del poeta, c’è la radice dell’etica. In quella modestia di vivere e nell’abbraccio della sofferenza, il poeta si trasforma in un grido inarticolato, di fronte alla sofferenza più atroce e insopportabile. È quell’abitare che implica un costante naufragio dell’anima nel dolore, nella solitudine, nell’innocenza, nella bellezza, nel linguaggio che sconfina nel silenzio: “Il linguaggio silenzioso genera fuoco. Il silenzio si diffonde, il silenzio è fuoco”.

L’urlo

Quando la speranza non riesce ad abitare il dolore, finisce per intaccare ogni capacità di vivere: il disgusto, la depressione, il “cupio dissolvi” restano come ultima liberazione. Lottare con l’enigma dell’esistenza significa sostenere una gara impari tra l’affermazione di sé e una lacerazione tragica divorante, insanabile:

“È il disastro,
È il tempo del vuoto non vuoto,
È l’ ora di mettere serrature alle labbra,
Ascoltare l’urlo dei condannati,
Contemplare ciascuno dei miei nomi,
Sospeso nel nulla”.

La lacerazione tragica, così come permette di vivere una felicità dolorosa, manifesta un’innocenza colpevole, che, pur nella forte ambiguità estetica e nella dimensione simbolica, tipica dell’arte tragica, ripristina quella contraddizione che è la colpa, identificata con l’immediatezza dell’esistenza.

Ma dov’è il confine tra colpa e innocenza, dov’è il limite tra soffrire e dire? E dove cercare il tentativo di persistere nella propria perdizione, aggiungendo dolore a dolore, solitudine a solitudine, paura a paura? “Scrivo contro la paura, contro il vento con gli artigli che si annida nel mio respiro”. Nell’incapacità di separarsi, nella perdita del nome, avviene la degenerazione e l’indebolimento dell’io, in un prevalere della sofferenza. Nella lacerazione dell’io, il movimento della sofferenza si allontana dalla crudeltà e abbraccia l’innocenza. Così Alejandra, nelle fasi regressive della sua dispersione e disaggregazione, riscopre la propria innocenza:

“E soprattutto guardare con innocenza. Come se nulla stesse accadendo, il che è certo”.

Nel limite è intrisa la pulsione freudiana di morte, nella non accettazione della nozione di limite, nell’arroganza che nasce dallo sforzo di dominare il limite: “Solo la decisione di essere dio, anche nelle lacrime”. In questa sfida, eroina al centro di una tragica lacerazione, Alejandra va verso la propria distruzione e l’azione tende a diventare un atto colpevole, colpevole di null’altro che di esistere:

Signore,
Ho consumato la mia vita in un istante.
L’ultima innocenza è esplosa,
Adesso è mai o mai più o semplicemente ciò che è stato.
L’inizio ha dato vita alla fine,
Tutto continuerà allo stesso modo.
Tutto continuerà allo stesso modo.
Ma le mie braccia insistono ad abbracciare il mondo,
Perché non le hanno ancora insegnato
Che è già troppo tardi”.

Nell’ineluttabilità del destino, quando caso e necessità concordano in un ordine superiore, nell’orizzonte entro il quale si colloca l’uomo, sia esso destino o segno di una necessità suprema, alla fine Alejandra soccombe. Nella fatica e nella difficoltà tra agire e soffrire, Alejandra non trova altro che l’urlo, il lamento, il canto e la poesia, come testimonianza inequivocabile delle radici metafisiche della visione tragica del mondo: il suo grido, il suo lamento diventano canto della terra che si trasforma nel suo desiderio di durare attraverso il canto:

Ero predestinata a dare alle cose nomi essenziali. Io non esisto più e lo so: quello che non so è cosa vive al mio posto. Perdo la testa se parlo, perdo i miei anni se rimango in silenzio. Un vento violento ha distrutto tutto. E non aver potuto parlare per tutti coloro che avevano dimenticato il canto”.

Nella sua natura primaria ed elementare, il dolore è innocente. Esprimere quel dolore nel grido, nella poesia, non è contraddire il canto della vita, anzi, si fonde perfettamente con esso. Chiarezza e oscurità, risonanza e silenzio entrano nell’immagine poetica, che suggerisce un abitare non solo estetico, ma anche etico, e il momento della sofferenza che conduce all’innocenza presuppone una morte su cui si vince ma si è allo stesso tempo, sconfitti.

Sì, forte, con sangue e fuoco, vengono registrate le mie immagini, senza suoni, senza colori, nemmeno il bianco. Se la traccia degli animali notturni si intensifica nelle iscrizioni sulle mie ossa… Parlo dell’irrimediabile, chiedo l’irrimediabile… Proiettata verso il ritorno, coprimi con un sudario lilla. E poi cantami un canto di inaudita tenerezza, un canto che non parli di vita o di morte, ma di gesti minimi, come il gesto più impercettibile di acquiescenza”.

Il dolore estremo di ciò che muore, un lamento che si avvicina all’Urschrei, al grido originario, si fonde con l’ebbrezza del divenire, dove ogni morte è anche una nascita. Il grido non contraddice il canto della vita: il dolore estremo di ciò che perisce è anche la gioia suprema del divenire, dove anche la morte è nascita:

“Io assistendo alla mia nascita,
io assistendo alla mia morte.”

Gabriella Bianco, NEST. La metafisica de la ausencia, Corregidor, Buenos Aires 1992: Emily Dickinson, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Alejandra Pizarnik.

 Gabriella Bianco, NEST. La metafisica de la ausencia, Corregidor, Buenos Aires 1992

 (continua)

Data:

13 Novembre 2024