La crisi emorragica di vendite di copie di giornali, non è un dato che si può solo imputare alle nuove tecnologie. Il predominio della televisione prima e della radio poi, hanno storicamente segnato validissimi competitor per ogni redazione della carta stampata. È sempre stata una moda molto comoda addossare gli insuccessi editoriali a mezzi di comunicazione molto più efficienti, rapidi e soprattutto visivi rispetto a un medium, la stampa, che ha come suo connotato naturale la materialità del mezzo e soprattutto un patto di fiducia con il lettore.
Quest’ultimo, a fronte di un’informazione indipendente ed esaustiva, si impegna a pagare un prezzo d’acquisto e a sacrificare parte del proprio tempo alla lettura, l’analisi e l’approfondimento offerti. È un atto di fede, una preghiera quotidiana dell’uomo moderno, come l’avrebbe definita Hegel, ciò che il lettore faceva e oggi non fa quasi più. Del resto la citazione si riferisce a un tempo, la modernità, oggi scomparsa e fagocitata dall’era della velocità, dell’ipermodernismo, di un connotato storico ancora del tutto da scoprire e studiare per ciò che riguarda gli effetti sugli individui. Le tendenze strutturali alla base del nostro tempo si spostano verso quella che un tempo era conosciuto come infotainment, ovvero un’informazione di intrattenimento strettamente collegato a un’ideologia del visuale piuttosto che dedicato alla lettura. Il fenomeno orami è intergenerazionale e mostra una preoccupante tendenza all’allontanamento dalle fonti tradizionali dell’informazione.
Il calo di attenzione verso il giornalismo tradizionale viene certificato dai dati provenienti dagli Usa, Paese in cui i contenuti puramente di intrattenimento offerti, per esempio, da TikTok sono molto apprezzati dagli utenti adulti, attratti dagli account delle celebrities social piuttosto che dagli account dei giornalisti o dei media tradizionali. L’esempio di TikTok può essere benissimo riferito anche ad altri social, in cui vi sono contenuti molto simili al social cinese proposti agli utenti per trattenerli il più possibile sulle piattaforme. È un chiaro sintomo di disinteresse, sfiducia, scarsissima attenzione verso il mondo dell’informazione tradizionale, il quale da parte sua si adatta al pubblico e scimmiotta le piattaforme social usando gli stessi espedienti per attirare lettori, ovvero offrendo un mix di argomenti di attualità con contenuti di stampo umoristico e leggero. Al di là però dei tentativi della stampa online di offrire uno spazio di intrattenimento misto a informazione (e non il contrario), l’infodemia, la disinformazione e la sfiducia verso il giornalismo tradizionale crescono a vista d’occhio, portando a una dispersione di ciò che un tempo era chiamata opinione pubblica e che oggi si definisce invece opinione di rete: un insieme numericamente impressionante di utenti, non più cittadini consapevoli e informati, con ridotte se non nulle capacità di approfondimento di tempi oggi complessi. La realtà dunque viene sempre più semplificata, ridotta all’osso. Sotto forma di immagine, essa perde ogni velleità di oggetto critico, portatore sano di coscienza civica.
Non sorprende se a crescere sia l’estremismo delle opinioni e la polarizzazione delle idee e se, su questo terreno impervio e minato, crescano e prolifichino tribuni della plebe che usano i social come megafono per diffondere odio tramite slogan. È il nuovo pane demagogico offerto alle folle digitali. Nel tempo di crisi senza fine che viviamo, dove a quella economica del 2008 è seguita rapidamente quella politica e sociale in una costante escalation, nessuno può dirsi esente da colpe. Nell’ambito dell’informazione non sono solo gli utenti a essere chiamati al banco degli imputati, rei di facile innamoramento al mondo patinato dei social e alle fuorvianti immagini in rapida successione come divertissement ludopatico. Anche gli stessi giornalisti tout court, includendo editori e direttori di testata, si sono mossi in ordine sparso: chi rincorrendo i lettori-utenti sul loro stesso terreno proponendo loro un racconto demistificante della realtà a suon di titoli acchiappa clic per lettori arrabbiati inneggianti alla forca; chi invece tirando i remi in barca, e limitandosi a coltivare il proprio orticello in attesa di tempi migliori con fare modaiolo e radical chic. Chissà cosa risponderebbero oggi i lettori dei giornali circa l’invito di Guido Ceronetti rivolto qualche anno fa agli italiani su che cosa vorrebbero leggere domani sul quotidiano. Probabilmente non risponderebbero perché non leggono i giornali e pertanto la domanda non li riguarda. Ma se anche fosse, vi sarebbe un’esigua minoranza che rifletterebbe in maniera speculare sul giornale le stesse immagini trasmesse sugli schermi dei device: uno scorrimento veloce senza meta alla ricerca di una comunicazione spettacolarizzata cha fa sempre a meno dell’informazione.