Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, l’aveva ben raffigurata simile a una vecchia dalle mani rapaci, avvolta da un fuoco che la tormenta e ne brucia i vestiti e, come se non bastasse, con un serpente che esce dalla sua bocca e le si rivolta contro iniettandole negli occhi il veleno mortale. Dante, nel Canto XIII del Purgatorio impone agli invidiosi un singolare castigo: a loro vengono cuciti gli occhi con il fil di ferro. Il Sommo Poeta insomma voleva sottolinearne la malvagità di questa insana passione umana che porta gli uomini a godere della rovina altrui. L’invidia, vizio capitale, è anche sottolineata da San Tommaso come la tristezza dei beni altrui; oggi l’invidia è considerata, sempre sulla scia delle parole dell’aquinate, la passione triste del XXI secolo, un’accezione a cui ha contribuito certamente la vetrina social. Annichiliti da una patologia che ha scalato le vette più alte, l’invidia si nutre di un profluvio di immagini che ogni giorno fuoriesce dalle piattaforme web e da cui emerge una vita fuori dalla realtà, sempre più patinata, fuorviante, edulcorata.
La fiction, ovvero letteralmente la finzione rappresentativa, è la peculiarità con cui spesso giovani e meno giovani, scimmiottano una vita che non possono permettersi e con l’unica ambizione di spingere sull’acceleratore di essere invidiati dagli altri. Chi non partecipa a questo nuovo gioco di società, è fuori da ogni considerazione e per lui la condanna è l’invisibilità, la gogna di una solitudine di corpo e anima; del resto i numeri sono implacabili: solo negli Usa i livelli di depressione degli adolescenti americani hanno portato a un aumento dei casi di suicidio in entrambi i generi. Contro un virus, l’invidia, che si diffonde proprio a partire dalla network society, una soluzione potrebbe un giorno arrivare dagli studi sull’affective computing, un’area di studio dell’interazione uomo-computer che studia il trattamento delle emozioni partendo da un livello computazionale con l’obiettivo di rendere i computer capaci di riconoscere e comunicare le emozioni. Produrre allora un domani robot in grado di interagire con utenti sempre più emotivamente provati, potrebbe forse sminuire tendenze estreme come l’invidia ad personam. Nell’attesa però assistiamo a una lenta e inesorabile escalation dell’esasperazione verso il confronto stimolato da social che si nutrono di filtri come photoshop e hashtag come #nofilter e davanti alla massa di haters del web un antidoto potrebbe essere l’atarassia verso i provocatori o invidiosi.
Il sentirsi protetti da uno schermo mentre si schiacciano i tasti e mentre si vomitano gli insulti più beceri, porta molti utenti a vivere online in quella che Shirley Turkle ha chiamato “moratoria psicosociale”, ovvero abitare ambienti come fossero spazi in cui sperimentare e vivere identità che difficilmente avrebbero modo di avere nella realtà di ogni giorno. Si formano quindi moltitudini di identità virtuali rielaborate prendendo spunto da alcuni aspetti che nella vita offline non ci soddisfano. Si aggiunga però che a contribuire a presunte insoddisfazioni del nostro aspetto, contribuisce anche l’immagine che ci viene rimandata dagli altri, ovvero come ci vedono i nostri amici. La comunità online dà vita e forma a pubblici connessi (danah boyd), ovvero contesti in cui le performance identitarie hanno maggiore visibilità e in cui persino il narcisismo assume una forma di difesa del soggetto di fronte al sentimento di insicurezza e complessità della quotidianità. L’autorappresentazione e la relativa condivisione diventa pratica e capitale culturale da diffondere nella natura aperta di internet, un capitale corporale che finisce per rafforzare la socievolezza (online) di persone già socievoli (offline). E far crescere l’invidia.