“Ecco la vera identità di Elena Ferrante”: questo il titolo dell’inchiesta condotta dal giornalista Claudio Gatti e pubblicata domenica scorsa nella sezione cultura del Sole 24 Ore. Uno scoop letterario che ha acceso l’interesse non solo dei fan più accaniti della Ferrante, ma anche della stampa internazionale: l’indagine è stata diffusa in seguito dal giornale tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito francese Mediapart e dalla rivista americana New York Review of Books.
Secondo il quotidiano, dietro l’autrice della celebre tetralogia de “L’Amica Geniale” si celerebbe in realtà Anita Raja, 63 anni, moglie dello scrittore Domenico Starnone e traduttrice presso la casa editrice “e/o”, la stessa che ha pubblicato i capolavori targati Ferrante. Le prove determinanti per l’identificazione, raccolte con il metodo investigativo follow the money, consisterebbero in dati economici e catastali. Pare che le “Edizioni e/o”, le cui entrate sarebbero lievitate tra il 2013 e il 2015, negli stessi anni abbiano versato alla Raja somme da capogiro, superando di ben sette volte il compenso del 2010. Un guadagno riconducibile al riconoscimento dei diritti d’autore per opere di un certo calibro. Inoltre, la traduttrice avrebbe acquistato un lussuoso appartamento nella zona nobile di Roma nel 2000, anno del successo del film “L’amore molesto”, tratto dal primo romanzo di Elena Ferrante. A quell’appartamento se ne sarebbe poi aggiunto un altro, dal valore di mercato tra gli 1,2 e i 2 milioni di euro, comprato da Starnone ma intestato alla moglie, insieme a una casa di campagna in Toscana, punto di riferimento dell’élite giornalistico – letteraria italiana.
Infine, i labili indizi forniti da “La Frantumaglia”, volume autobiografico edito nel 2003. In realtà, la vita di Elena, per come viene descritta nel libro, non coincide affatto con i dati biografici della Raja. Elena è nata a Napoli, cresciuta dalla madre sarta in compagnia delle sue tre sorelle e poi allontanatasi dal paese natale per motivi di lavoro; Anita è nata a Worms (Germania) da una famiglia di immigrati polacchi e ha vissuto a Napoli solo fino all’età di tre anni, per poi trasferirsi a Roma, dove sua madre aveva trovato un impiego come insegnante. Un’autobiografia probabilmente fasulla, quindi, a cui è inframezzata una significativa citazione di Italo Calvino: “Mi chieda pure quello che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità, di questo può star sicura”. Una sorta di dichiarazione d’intenti da parte dell’autrice, che scrive anche: “Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona”. C’è chi giura di essersi imbattuto, tra le pagine dei bestseller della Ferrante, in altre sottili prove che confermerebbero l’identità della scrittrice: Nino, grande amore di cui si parla nella quadrilogia e soprannome di Domenico Starnone; Elena Greco, voce narrante, nome di una zia molto amata da Anita; la Normale di Pisa, principale ambientazione della storia nonché scuola frequentata dalla figlia dei coniugi Starnone, Viola; alcuni riferimenti, anche se mai espliciti, alla scrittrice tedesca Christa Wolf, apprezzata e tradotta più volte dalla Raja.
Nessuna smentita e nessuna conferma sono giunte da parte dell’interessata. La responsabile stampa della “e/o” si è limitata a dichiarare che Anita non è una dipendente della casa editrice, bensì una traduttrice freelance. Queste le dure parole, invece, di Sandro Ferri, responsabile del marchio editoriale insieme alla moglie Sandra Ozzola: “Trovo disgustoso il giornalismo che indaga nella privacy e tratta le scrittrici come camorriste. Adesso si finisce anche per guardare nei conti. […] È un assedio senza tregua, una mancanza di rispetto nei confronti di una persona che non vuole apparire”. Frasi che non escludono, però, la veridicità dell’inchiesta del Sole.Intanto, l’opinione pubblica è divisa tra chi difende a spada tratta l’autrice e chi parla di una trovata pubblicitaria escogitata ad hoc per accrescere la popolarità dei libri firmati da Elena Ferrante, che già contano 3,6 milioni di lettori in tutto il mondo.
Checché se ne dica, le norme sulla protezione del copyright riconoscono all’autore il diritto di restare nell’anonimato. D’altronde, la lista degli scrittori che non hanno voluto rivelare il loro vero nome è lunga: da Jane Austen, che nella prima edizione di “Ragione e sentimento” si firmava semplicemente “una signora”, all’americano Richard Bachman, noto con lo pseudonimo di Stephen King. Tante le possibili motivazioni alla base di una scelta simile: fino agli inizi del Novecento le scrittrici avevano necessità di celarsi dietro uno pseudonimo maschile, ma spesso ci si nascondeva – e ci si nasconde, ancora oggi – per sicurezza della propria persona, per cambiare un nome poco gradito, per richiamare con un nomen omen i significati più reconditi delle proprie opere. Esigenze che si scontrano con la curiosità, a volte morbosa, del pubblico. Forse dovremmo tornare a essere quel genere di lettori che amano perdersi nelle storie, che si lasciano ipnotizzare dalle parole e dall’odore della carta stampata, dando peso alla sostanza culturale piuttosto che a inutili gossip. Perché in fondo, come afferma il proverbio, “non si giudica un libro dalla copertina”.