È dal 2006 che il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan – allora Primo Ministro – tenta di svincolare la Turchia dalla storica alleanza con il blocco atlantico. Il “caso Ergenekon” ne era una prova evidente, ma la vera scintilla è arrivata con l’estromissione del premier Ahmet Davatoglu, legato all’ex alleato Fetullah Gulen, dieci anni più tardi; una scintilla che è divampata nel tentativo di golpe (ndr, Americano? Europeo? Messo in scena dallo stesso Erdoğan?) e, con il suo fallimento, nell’epurazione dei generali filo-NATO. Durante l’ancora in corso conflitto in Siria, l’ambiguità delle azioni turche hanno più volte sollevato sospetti sul ruolo che la Sublime Porta intendesse giocare a livello internazionale: membro della coalizione a guida USA, la Turchia trafficava di nascosto con l’Isis per fiaccare la resistenza curda nel Rojava e nel Jarabulus, mantenendo le distanze da Bashar al-Assad pur senza rifiutare le avance di Putin e dell’Iran, tanto da diventare il principale referente nell’area con cui intavolare trattative di ricostruzione. Questa volta, però, il Sultano (ndr, Erdoğan) si è spinto ancora oltre. L’annuncio dell’acquisto dei sistemi missilistici S-400, di cui abbiamo trattato a proposito del “nuovo corso” della diplomazia russa, ha spianato la strada verso l’uscita del Paese dalla NATO. Nell’ambito di un incontro con il deputato nazionalista russo Vladimir Zhirinovsky, il Presidente, che ultimamente sta intensificando le relazioni turche con paesi come la Cina, l’Iran, il Venezuela e l’Angola, avrebbe assicurato che il suo Paese sarebbe preparato all’eventualità di abbandonare la NATO. A dirlo ai media è lo stesso politico russo. Zhirinovsky ha poi ricordato che la Turchia è stata una delle prime nazioni ad essere ammesse nella NATO nel 1952 “perché il suo territorio era adatto per azioni contro la Russia”. Lo conferma anche il portale serbo Fort-Russ vicino a questi ambienti.
Le azioni turche rappresentano senza dubbio una frattura nei rapporti fra la Turchia e i suoi partner atlantici, tuttavia ancora non significa che saranno espulsi dall’Alleanza militare. Perdere la Turchia sarebbe infatti un colpo durissimo per Washington, ecco perché le forze rivoluzionarie turche stanno ora spingendo un Erdoğan sempre ambiguo a perseguire questa direzione con coraggio, ricercando l’unità di tutti i patrioti da destra e sinistra. Le forze filo-curde unite alla socialdemocrazia liberale tentano di frenare questo processo, così da tenere il Paese vincolato al campo atlantico, proprio mentre è ripreso il processo al leader Selahattin Demirtas. Per tutta risposta gli americani hanno “escluso” la Turchia dagli F-35. L’addestramento dei piloti era stato interrotto. Un velivolo, già di proprietà turca ma in USA, non sarà consegnato. L’esclusione dal programma industriale comporta la perdita d’importanti ritorni offset e ricadute tecnologiche sui quali faceva affidamento l’industria difesa turca (che ha inutilmente cercato di distogliere il Sultano dalla fornitura russa). Lockheed-Martin vede però venir meno la vendita di un centinaio di velivoli destinati Ankara. Se Ankara piange, Washington non ride. La prospettiva di perdere un buon affare aveva pesato sullo spirito mercantilistico del Presidente americano, lasciando Casa Bianca stranamente silente dopo l’arrivo della prima fornitura russa. Il Congresso è invece unito, in raro spirito bipartisan, nel voler introdurre sanzioni contro Ankarache potrebbero non fermarsi all’esclusione dagli F-35. Tutto sta a vedere fin dove si spingerà lo scontro bilaterale, e se si fermerà. Sullo sfondo il Presidente turco ha aperto un altro fronte, questa volta con l’UE, ampliando le operazioni di perforazione nei giacimenti di gas al largo di Cipro, andando incontro a una mandata di sanzioni europee. Ieri, infine, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu ha dichiarato che “Se non saranno consegnati gli F-35, la Turchia può soddisfare i suoi bisogni da altre fonti, in attesa di produrre i suoi jet”.
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