Prima la speranza. Alimentata da segnali dagli abissi, rumori, sonar e chiamate satellitari smentite. Poi la dura realtà: bisogna far presto, perché l’ossigeno all’interno del sottomarino San Juan, disperso nell’Atlantico da una settimana, sta finendo. Le squadre impegnate nella ricerca del sommergibile hanno captato in nottata un segnale nell’Atlantico meridionale che potrebbe essere quello dell’ARA San Juan, come riferisce oggi il quotidiano ’Clarin’ citando fonti delle squadre di ricerca. Per ora, tutto quello che possono fare i famigliari dei 44 marinai, piegati dall’ansia e dal timore di non poter riabbracciare i loro cari, è sperare e pregare.
Ma il tempo potrebbe non essere dalla loro parte. Nel peggiore dei casi, il sottomarino potrebbe rimanere senza ossigeno già oggi, scrive la ’Cnn’, qualora non fosse stato in grado di raccogliere nuove riserve d’aria in superficie. I parenti dei marinai cercano di tenere alto il morale, mentre decine di navi continuano a cercare disperatamente segnali del sottomarino, muovendosi nel buio dei fondali, setacciando l’oceano in lungo e in largo. “È davvero emozionante vedere tutta questa gente qui, le persone sono qui per noi, lo apprezziamo molto”, ha detto la sorella di uno dei marinai dispersi.
Intanto, si inizia a far luce sul mistero del sommergibile. Nell’ultima comunicazione con la base navale di Mar del Plata, avvenuta alle 7.30 del 15 novembre, l’equipaggio aveva segnalato un guasto elettrico, un probabile “cortocircuito”, non è chiaro se nel locale batterie. Il sommergibile sarebbe riemerso, per poi scomparire ad oltre 400 chilometri al largo della Patagonia.
Per cercare il sottomarino, sul quale si trova anche una donna, prima ufficiale del Sudamerica, si sono mobilitati almeno nove Paesi, tra cui l’Uruguay, il Cile, il Brasile, il Perù, gli Stati Uniti e il Regno Unito, mentre la Marina argentina ha schierato una quindicina di unità navali. Riportare a casa sani e salvi tutti i membri dell’equipaggio non è solo la speranza ma anche l’obiettivo primario di questa disperata corsa contro il tempo.
E se è vero che l’quipaggio è comunque addestrato a sopravvivere in condizioni estreme, è innegabile che se fosse vero che il San Juan ha a disposizione solo 7 giorni di ossigeno, allora gli scenari più cupi inizierebbero già a prendere forma. Le autorità non sanno ancora dire se il sottomarino si trovi in superficie o se, secondo l’ipotesi più accreditata, sia affondato. Finora, le ricerche in mare non hanno avuto esiti positivi.
Se il San Juan è davvero affondato e si trova sul fondo dell’oceano, allora l’equipaggio, secondo quanto stimano alcuni analisti, avrebbe a disposizione tra i 7 e i 10 giorni di ossigeno per sopravvivere.. “Se il San Juan è affondato ma è ancora intatto, avrà circa una settimana o 10 giorni di ossigeno” ha detto alla ’Cnn’ Peter Layton, visiting professor della Griffith University. Quanto ai viveri, “in generale vi sono sempre scorte per 15 giorni in più rispetto a quelli di navigazione prevista” ha detto il portavoce della Marina, Enrique Balbi.
Mentre in nottata si è diffusa la notizia, non ancora confermata, che alcuni aerei statunitensi avrebbero individuato qualcosa nell’Atlantico meridionale che potrebbe corrispondere a un oggetto metallico, va ricordato che in fondo, trovare un sottomarino progettato per non essere individuato, resta ancora il problema principale.
“Stupri e violenze, io soldatessa nell’esercito di Kim”
Nell’esercito di Kim Jong-Il e Kim Jong-un dall’adolescenza fino alla fuga, dieci anni dopo. Un’esperienza terribile fatta di stupri, violenza, stress e malnutrizione. E’ lo scioccante racconto di Lee So Yeon, soldatessa nordcoreana dai 17 ai 28 anni, poi detenuta per aver tentato la fuga una prima volta e finalmente libera a 29 anni al secondo tentativo di raggiungere la Corea del Sud, nel 2009. A raccogliere le parole della reduce del regime è la Bbc, che l’ha intervistata il 28 settembre scorso e che ha recentemente rilanciato l’intervista.
“Ci dicevano ’Kim è un dio’” – Parte del corpo femminile dell’esercito di Pyongyang, Lee So Yeon entra come volontaria a 17 anni per aiutare economicamente la famiglia. Suo il compito di individuare i bersagli nemici da bombardare. Prima ancora lo studio, in classi di formazione: “A quel tempo tutto quello che facevamo era stare seduti e studiare. Ci insegnavano che Kim era un dio, e per questo dovevamo essere pronti a morire per lui. Ci chiedevano ’chi è il tuo nemico?’, prima di sparare rispondevamo che erano gli Usa e le forze della Corea del Sud. Era così ogni giorno. Allora non avevo contatti con gli altri Paesi e di America non sapevo nulla, per cui quelli erano i nemici da combattere con le armi”. Una vita scandita dalla propaganda, che riguarda anche il nucleare, totalmente ignoto a popolazione e esercito, presentato come arma efficace per proteggere il Paese, ma sorvolando sulle reali implicazioni del suo uso, come i potenziali effetti devastanti.

“Malnutrite e senza mestruazioni”– La vita di tutti i giorni, racconta ancora alla Bbc l’ex soldatessa, era fatta di tre miseri pasti al giorno senza alcuna proteina – “dopo sei mesi eravamo quasi tutte malnutrite, ma non potevamo lamentarci e chiedere un cibo migliore”- , assenza di acqua calda per potersi lavare e pericolosa da bere – “l’acqua proveniva direttamente da un ruscello di montagna, a volte insieme a lei arrivavano anche rane e serpenti” -, e problemi di salute derivanti dalla malnutrizione: “Era difficile per una donna soldato, perché dopo sei mesi o un anno abbiamo smesso di avere le mestruazioni a causa dello stress e della scarsità di cibo. Alcune erano felici di non averle perché le condizioni di vita erano talmente brutte che avere il ciclo sarebbe stato peggio”. Nelle camerate, sistemate una accanto all’altra e sui letti a castello, si dorme invece su un materasso di paglia e sotto i ritratti di Kim Jong-Il e Kim Jong-un. Nell’aria, l’odore di sudore trattenuto dai letti.
“Stuprate da chi ci doveva proteggere” – Nonostante lo stupro e le molestie fossero punite nell’esercito, le soldatesse, racconta ancora Lee, erano vittime indifese di colleghi e superiori: “Il problema più grande che si trovano ad affrontare le donne soldato in Nord Corea è la violazione dei diritti umani. Il più comune è l’aggressione sessuale e lo stupro. A me non è accaduto, ma il comandante della compagnia restava ore nella stanza della truppa violentando le donne che erano sotto il suo comando. Poteva accadere tre volte l’anno, in diverse unità”.
“Allora – ricorda – il problema della violenza sessuale sulle soldatesse non era qualcosa di cui i vertici si preoccupavano o provavano a risolvere. Ma erano le vittime a pagare: potevano essere rimandate a casa o potevano bloccarne una promozione. Succedeva spesso, e ci chiedevamo chi ci avrebbe protette all’interno dell’esercito mentre eravamo separate dalla nostra famiglia. Gli ufficiali sarebbero dovuti essere i nostri supervisori, ma gli stessi supervisori abusavano delle soldatesse. Tutto questo mi trasmetteva ansia e stress”.
Ergastolo per il boia di Srebrenica
Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo perché colpevole di genocidio e altri nove capi di imputazione per crimini di guerra e contro l’umanità di cui doveva rispondere, in relazione alle atrocità commesse durante la guerra in Bosnia Erzegovina, combattuta dal 1992 al 1995. La sua condanna, che chiude un processo lungo cinque anni, era attesa dalle famiglie delle vittime dei massacri compiuti durante la guerra nella repubblica ex jugoslava, che fece 100mila morti e 2,2 milioni di sfollati e cui il nome di Mladic sarà per sempre legato.
La lettura della sentenza è stata interrotta dallo stesso Mladic, 74 anni, che ha urlato all’indirizzo della corte dopo il rifiuto dei giudici di posporre il procedimento o saltarne una parte per le condizioni di salute dell’imputato. Il giudice Alphons Orie ha allora disposto il suo allontanamento dall’aula.
“Qualcuno oggi sosterrà che il nostro giudizio sia un verdetto contro il popolo serbo. Il mio ufficio rigetta questa affermazione: Mladic è colpevole, solo lui” ha scritto in una dichiarazione il procuratore capo Serge Brammertz. Una dichiarazione in cui contesta anche il fatto “che altri potranno dire che Mladic è un eroe e che stava difendendo il suo popolo: il nostro giudizio dimostra che niente può essere più lontano dalla verità. Mladic – conclude – sarà ricordato nella storia per le molte comunità e vite che ha distrutto”.
Mladic era accusato di aver orchestrato una campagna di pulizia etnica, una campagna che include Srebrenica, il peggior massacro compiuto in Europa dalla seconda guerra mondiale, l’uccisione nei giorni a partire dall’11 luglio 1995 di 8mila tra uomini e ragazzi nell’enclave musulmana orientale di Srebrenica, che le Nazioni Unite avevano dichiarato protetta. Arrestato nel 2011, il suo processo è durato 530 giorni, ha visto sfilare oltre 500 testimoni e presentare 10mila documenti.
Il ’macellaio dei Balcani’, così veniva soprannominato l’ex generale che era al comando delle truppe che entrarono a Srebrenica nel luglio 1995, venne descritto dall’allora negoziatore di pace Richard Holbrooke come “una di quelle combinazioni letali che la storia occasionalmente produce, un assassino carismatico”.
Mladic è stato chiamato a rispondere anche dell’assedio di Sarajevo, la capitale bosniaca isolata dal resto del mondo dalle sue forze e colpita quotidianamente dal fuoco dei cecchini che sparavano dalle colline circostanti la città e terrorizzavano la popolazione: i morti furono oltre diecimila.
Alla fine della guerra, il generale Mladic si diede alla fuga e venne rintracciato solo 16 anni più tardi, durante l’irruzione delle forze dell’ordine nel giardino di una piccola casa nel nord della Serbia. Aveva due pistole, ma si è arreso senza opporre resistenza, prima di essere estradato all’Aja per il processo.
Nel 2011, un giudice ha formalizzato una dichiarazione di non colpevolezza a nome di Mladic, che si rifiutava di cooperare. Poi è iniziato il processo. La sentenza a carico dell’ex leader militare dei serbi di Bosnia arriva ad oltre un anno da quella contro Radovan Karadzic, 40 anni di carcere. Quanto all’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, l’altro nome per sempre legato alle guerra balcaniche e alle loro atrocità, venne arrestato nel 2001 e trasferito all’Aja ma è morto prima che il suo processo potesse essere completato.