Nella prima parte del nostro approfondimento, rirendendo una inchiesta del sito Noticias Financieras, abbiamo focalizzato l’attenzione sull’attività di repressione del narcotraffico delle forze di polizia e di investigazione argentine congiuntamente a quelle degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite. Ma la domanda che ci poniamo è: perché i narcotrafficanti messicani e colombiani hanno posto l’Argentina come base di produzione e smercio della droga? L’interesse verso il Paese sudamericano è incentrato sull’efedrina, sostanza indispensabile per la creazione di metamfetamine e per la trasformazione della foglia di coca in cocaina: in Argentina, come si legge in un approfondimento del sito Avvenire, i vincoli all’importazione della sostanza dall’Asia erano scarsi. La sostanza era acquistabile in grandi quantità da parte delle aziende farmaceutiche, facilmente corruttibili dal sistema e in grado di smistare diverse partite per fini illegali. Il cerchio di corruzione si chiuse nel momento in cui fu scoperto che i governi Kirchner avevano ricevuto ingenti finanziamenti, per le campagne elettorali, proprio dall’industria medico farmaceutica, secondo un’indagine giornalistica condotta da Daniel Farah, dell’International Assessment and Strategy Center.
Un freno all’importazione fu posto a seguito dei fatti di sangue del 2008, quando furono assassinati tre dirigenti dell’industria farmacologia in concomitanza alla scoperta di un maxi laboratorio nella provincia di Buenos Aires, ma dopo alcuni anni tutto tornò come un tempo. In Argentina non vi sono piantagioni di cocaina, che invece risulta abbondante nei vicini Perù, Colombia e Bolivia. Gli scarsi controlli alle frontiere hanno però permesso che il traffico venga veicolato proprio attraverso l’Argentina, ove si sono sviluppati numerosissimi laboratori chiamati “cocinas”. I narcos messicani hanno i mezzi per poter, di qui, esportare in tutto il mondo. C’è spazio per smerciare, questa volta internamente, persino gli “scarti” di produzione: grazie al bassissimo costo, il c.d. “paco”, nome con il quale viene indicato il residuo di produzione, trova terreno fertile tra le favelas ai margini dei borghi, sia in termini di consumo che di spaccio. L’allarme da parte del Dipartimento di Stato americano, per questa terra di nessuno, giunge dal 2013. Lo stesso appello viene dal clero, vicino al “dramma della droga e del narcotraffico” (titolo del documento pubblicato dai vescovi nel lontano 2012). “Lo Stato metta il narcotraffico in cima alle sue priorità”, aveva chiesto il presidente della Conferenza episcopale argentina, Josè Maria Arancedo.
A fine 2021, l’Osservatorio sul divario sociale dell’Università Cattolica Argentina (Uca) aveva rilevato come il 23% delle famiglie, in ambito urbano, segnalasse vendita di droga nell’isolato o nel quartiere di residenza, percentuale che saliva al 30% fuori dalla capitale. Il consumo si era fermato durante la pandemia da covid-19, ma subito dopo la cessazione dell’emergenza è tornato a livelli persino superiori al periodo pre-pandemia. Candice Welsch, rappresentante regionale dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, ha oggi sottolineato come sia “sempre più urgente un’azione coordinata tra i Paesi del Cono Sud per affrontare efficacemente il problema delle droghe illecite”, specificando come il progetto di cooperazione internazionale sia “un simbolo di coordinamento tra gli Stati per affrontare le sfide del narcotraffico e delle economie illegali”.
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I^ PARTE
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