Muhammed Ali ha definitivamente appeso i guantoni al chiodo. Dopo un lungo round contro il Parkinson ha lasciato il ring del combattimento che, per oltre trent’anni, l’ha tenuto all’angolo sin dal primo minuto. E’ morto a Phoenix durante la notte per complicazioni respiratorie; due giorni fa, è stato ricoverato in ospedale.
Nato nel 1942 a Louisville, nel Kentucky, con il nome di Cassius Marcellus Clay Junior, si avvicina alla boxe all’età di dodici anni. Nel 1960 conquista l’oro olimpico a Roma. Per la sua “presenza scenica”, da molti è definito uno spaccone. Il suo stile, invece, è inconfondibile: leggero come una farfalla e pungente come un’ape. Sono tanti i successi che Ali ha conseguito durante la sua lunga carriera terminata nel 1981 (circa 50 vittorie per KO).
Il 25 maggio del 1964, a Miami, conquista la corona di Campione del Mondo dei pesi massimi battendo in sette riprese Sonny Liston. Nel frattempo comincia ad avvicinarsi a Martin Luther King e Malcolm X nella “lotta” alla segregazione razziale. E arriviamo al periodo della Guerra in Vietnam. Convertitosi all’Islam, nel 1966 rifiuta la chiamata alle armi dello zio Sam (N.D.R. Quattro anni prima era stato riformato dalla leva, probabilmente per motivi sportivi), definendosi un “ministro della religione islamica”, obiettore di coscienza. A tal proposito fecero molto scalpore queste sue parole durante una conferenza stampa, giustificando il suo “No” alla guerra: “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro“. E fu condannato da una giuria, composta di soli bianchi, a cinque anni di reclusione.
Nel 1971, esce dalla prigione e torna sul ring. Dopo aver perso, ai punti, con Joe Frazier il tentativo di riconquistare la corona dei “massimi”, ci riprova tre anni dopo, in quello che è diventato l’incontro di boxe di “tutti i tempi”. Kinshasa, Zaire (Oggi Repubblica Democratica del Congo), è il 30 ottobre del 1974. Ali, sempre più impegnato contro l’Apartheid e per i diritti civili, vola nella capitale congolese per affrontare il Campione del Mondo dei pesi massimi, George Foreman. Un’intera nazione è dalla sua parte. Il pubblico spinge lo sfidante al grido di “Ali bomaye” (Ali uccidilo). E’ un match storico. Ali, mette in scena uno spettacolo fatto di attesa, brevi contrattacchi, resistenza e provocazione. “Mi hanno detto che sai dare pugni, George; mi hanno detto che potevi colpire come Joe Louis“, questo Ali, urlava sul ring all’avversario. La sua tattica è chiara sin dai primi round: portare allo sfinimento psico-fisico, Foreman.
E all’ottavo round, arriva il colpo finale: gancio sinistro e diretto n pieno viso. Dopo il suo ritiro, bisogna ricordare l’impegno per la pace nel mondo. Nel 1991 si è recato perfino a Bagdad nel tentativo di convincere Saddam Hussein a non entrare in guerra con gli Stati Uniti. Intanto, il morbo di Parkinson, apparso nel 1984, inizia a farsi sotto prepotentemente. Siamo alla metà degli anni ’90. Ali, non è più l’uomo pieno di muscoli ed energia che tutti hanno sempre ammirato. Nel 1996, tutto il mondo si commuove quando appare come tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta. In quest’occasione gli è stata riconsegnata la medaglia olimpica conquistata a Roma (N.D.R. Sembrerebbe che l’originale la gettò nel fiume Ohio in protesta contro il segregazionismo negli USA).
Muhammed Ali ha combattuto fino alla fine dei suoi giorni, per se stesso e per un mondo migliore. Muore a 74 anni dopo una lunga battaglia contro il Parkinson. E noi lo salutiamo con queste sue parole: “Ho odiato ogni minuto di allenamento, ma mi dicevo non rinunciare, soffri ora e vivi il resto della vita come un Campione”.