Mancano poche settimane per decidere le sorti della scuola. Il 29 agosto, infatti, il premier sembra intenzionato a mettere in atto cambiamenti radicali nelle aule italiane. Da tempo gli annunci sulla rivoluzione del pianeta scuola si susseguono con continui e rocamboleschi cambi di direzione.
Luglio è stato decisamente un mese molto caldo. All’inizio del mese scoppia la bomba del piano–scuola Reggi – aumento dell’orario di lavoro per i docenti a 36 ore a stipendio invariato; modifica del calendario scolastico; obbligo delle ferie per i docenti nel mese di agosto perché la scuola deve rimanere aperta fino alla fine di luglio; azzeramento delle graduatorie d’istituto, spazzando via i precari (le supplenze brevi a carico dei docenti di ruolo, senza, peraltro, riconoscimenti economici); riduzione da 5 a 4 anni del ciclo di studi della secondaria di secondo grado – che, in maniera del tutto superficiale e improvvisata, propone una rivoluzione che ha più però i caratteri di una confusa continuazione della politica dei tagli avviata dai predecessori.
Nonostante, in seguito alle reazioni della scuola, si siano susseguite smentite alternate a confuse prese di posizione della Giannini, sembra chiaro che il comune denominatore di tutti questi possibili interventi di pseudo riforma sia il risparmio della spesa. Aumentare l’orario di servizio dei docenti infatti significa evitare il ricorso alle supplenze che rappresentano un costo; accorciare di un anno il percorso di studi comporta ovviamente un taglio degli organici del personale. E tutto questo in nome di un risparmio che non vede la scuola e l’esercito degli insegnanti che ci lavorano con passione come una risorsa, ma come un semplice costo. Insomma, se davvero tali provvedimenti dovessero essere confermati il prossimo 29 agosto, ci ritroveremmo dinanzi non ad una politica che “cambia verso”, ma ad una politica vecchia, anzi vecchissima, fatta ancora di tagli. Tagli ieri e tagli oggi.
Dalla Gelmini in poi, insomma, una politica fatta di soli tagli, di riforme che non valorizzano il lavoro dei docenti, anzi lo sviliscono. Non qualificano l’offerta formativa, anzi la peggiorano. E a nulla vale la pretestuosa dichiarata esigenza di adeguare il nostro sistema scolastico a quello dei paesi europei, visto che dalle tabelle della Cisl emerge che, non solo gli insegnanti italiani sono i peggio pagati d’Europa, ma che lavorano anche più di quelli europei: 22 ore settimanali nella primaria corrispondono a una media Ue di 19. Anche nella secondaria di secondo grado si hanno 18 ore italiane contro 16 nella Ue. E non solo. Perché non si può sottovalutare che i docenti italiani già oggi effettuano un orario che supera di gran lunga le 36 ore, perché oltre alle ore frontali di lezione svolgono una serie di attività aggiuntive che vanno dalla preparazione delle lezioni, alla correzione dei compiti, alla partecipazione agli organi collegiali e ai colloqui con le famiglie che li vedono impegnati, nelle ore pomeridiane, senza alcun riconoscimento economico aggiuntivo.
E’ chiaro come, per la complessità della questione, un cambiamento serio per la nostra scuola non può essere affidato a frettolosi provvedimenti calati dall’alto che non prevedano un processo di partecipazione tale da coinvolgere anche esperti, dirigenti, insegnanti, genitori e studenti; le riforme strutturali non possono essere semplici strategie di marketing, confezionate in annunci offerti a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico. Le riforme strutturali non si improvvisano, necessitano di tempo e di adeguate riflessioni. Intanto, il 29 agosto è vicino e, se queste sono le premesse, c’è poco da stare sereni.