I fiori all’occhiello nazionali diventano sempre più rari nel nostro Belpaese. Marchi storici, simboli delle eccellenze italiane, icone emblematiche dell’italianità, non sono più italiani da un pezzo, ceduti a grandi gruppi stranieri. Il riso Scotti, i gelati Algida, i baci Perugina, lo zucchero Eridania, le moto Ducati, le auto Lamborghini, sono stati ceduti o, stanno per essere ceduti, come per Telecom e Alitalia, a mani straniere. Problemi di politica industriale?
Di dispersione dei capitali o di cattiva gestione? Una storia sbagliata di svendite e dismissioni: a raccontarla sono Uil e Eurispes nel Rapporto “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita”, presentato a Roma dal presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara, che, qualche giorno fa, insieme al segretario della Uil-Pubblica Amministrazione, Benedetto Attili, ha illustrato come, dal 2008 al 2012 siano stati 437 i passaggi di proprietà dall’Italia all’estero per una spesa di 55 miliardi, da parte di gruppi stranieri, per acquistare i marchi italiani. Le svendite, perchè di vere e proprie svendite si tratta, tuttavia, sono cominciate molto prima. Già dagli anni ’70 ci sono state le prime acquisizioni. Semmai negli ultimi anni sta cambiando la nazionalità degli acquirenti: prima a fare quello che il rapporto definisce lo “shopping dissennato di brandMade in Italy” erano soprattutto aziende dalla Spagna, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. In tempi recenti sono arrivati anche imprenditori da Cina, India, Giappone, Corea, Qatar, Turchia e Thailandia. Più dei freddi numeri, quello che preoccupa è sintetizzato dalle domande che il cuore del Rapporto pone: cosa rappresentano questi acquisti, queste cessioni? vanno letti come un nuovo inizio o come un inesorabile declino che snaturerà l’economia italiana?
Nonostante tutto, l’economia italiana mantiene una posizione di spicco per produzione ed esportazioni. A fine 2011, l’Italia, infatti, era al secondo posto quale esportatore mondiale dei prodotti di abbigliamento e pelletteria, al terzo per il settore tessile, l’arredamento e gli elettrodomestici. Inoltre, l’Italia è all’ottavo posto della classifica mondiale per ilPil. Eppure tutto questo non è sufficiente a salvare il “Made in Italy” dalla svendita feroce a cui è stato sottoposto negli ultimi vent’anni. L’ampio database, contenuto nel Rapporto, dei 130 marchi italiani svenduti a imprese straniere fa rabbrividire. Il problema è che il modello italiano delle “family business”, che per lungo tempo ha rappresentato la fortuna del “Made in Italy”, non regge più. Se a questo, poi, si aggiunge la drammatica assenza di un “sistema Paese” che anziché supportare le nostre imprese nella ricerca di competitività rischia di comprometterle definitivamente, soprattutto quelle più piccole, allora, purtroppo, i “conti” tornano. Sistema di tassazione, costo industriale dell’energia elettrica e costo dei trasporti rappresentano senza dubbio le problematiche che sempre più spesso portano alla chiusura o alla svendita delle nostre aziende di qualità. A rischio anche quei settori, come l’alimentare e la moda, ancora leader di mercato. A finire nelle tasche dei francesi, la Parmalat e gli zuccherifici Eridania; i pomodori pelati del gruppo Ar Alimentari, primo produttore italiano, sono invece stati venduti alla società anglo-giapponese Princes, controllata dalla Mitsubishi.
Nel settore della moda, la Francia, ancora una volta, fa la parte del leone in Italia. Il brand dello stilista Gianfranco Ferré è stato acquistato da Paris Group, solo per citarne uno. Per non parlare, poi, del caso Telecom Italia, la cui porta è stata socchiusa alla spagnola Telefonica che, dal 2014, metterà le mani sullo storico operatore italiano per il prezzo stracciato di 850 milioni di euro. Ma l’elenco è ancora lunghissimo e la fuga dei marchi italiani costa al nostro Paese decine di miliardi di euro. Perché il cambiamento di proprietà spesso comporta lo spostamento di risorse finanziarie della società acquisita, la delocalizzazione della produzione, la chiusura degli stabilimenti e, dulcis in fundo, una riduzione nell’occupazione. Dinanzi a questi dati cresce lo sgomento: Esiste una soluzione? Come fermare la fuga delle grandi marche e l’estinzione del “Made in Italy”? Che la globalizzazione, con le sue promesse di guadagni universali mai avverati, con le sue parole d’ordine e la sua retorica sia, in realtà, una grande truffa? Può un Paese sprofondato in un caos immobile, in cui tutti sono contro tutti, con una sentenza che ha bocciato la “porcata elettorale”, cercando di richiamare ai propri doveri partiti e governo, creare azioni concrete che riqualifichino la prospettiva economica?
Perché, l’unica via d’uscita possibile, in questa barca alla deriva chiamata Italia, come sottolinea lo stesso Rapporto Uil-Eurispes, è la crescita, attraverso lo sbarco sui mercati internazionali e in Borsa. E, ovviamente, investimenti uniti a una buona dose di coraggio.