Immaginate, con un notevole sforzo di fantasia, che un politico, dopo aver guidato per più di vent’anni il proprio Paese, decida al termine di questa esperienza di candidarsi alle elezioni successive come leader del partito d’opposizione… vincendo. Ad alcuni sembrerà una via di mezzo tra un romanzo di fantascienza e una commedia cinematografica, eppure è esattamente quello che è successo in Malesia negli ultimi mesi…
Mahathir Mohamad è sempre stato uno dei politici più carismatici del mondo asiatico. Ha guidato per ben ventidue anni lo United Malays Organisation (il partito che dal 1957 fino a poche settimane fa ha sempre detenuto la maggioranza dei seggi in parlamento) e, per altrettanto tempo, è stato il presidente del consiglio malese. Durante il suo mandato, ha dimostrato un carattere singolare ed ambiguo: da un lato la sua politica nepotista lo ha portato a concedere generosi favori ai suoi amici più stretti, ma al contempo non sembra aver ricavato particolari ricchezze attraverso la sua attività pubblica, forse perché fin dall’inizio non è mai stato il denaro ad affascinarlo più d’ogni altra cosa, ma il potere. Non c’è dunque da stupirsi se per preservare il proprio ruolo, negli anni trascorsi al governo, egli ha perseguitato incessantemente tutti i suoi oppositori. Ne sa qualcosa Anwar Ibrahim, leader del principale partito di minoranza, il quale nel 1998, dopo aver protestato contro le politiche sociali ed economiche dell’esecutivo, è stato fatto arrestare con la falsa accusa di sodomia.
Rimosso quest’ostacolo, Mohamad ha potuto terminare il suo mandato al governo senza ulteriori intoppi, fino a quando nel 2003, all’età di settantacinque anni ha deciso (una scelta di cui si sarebbe presto pentito) che era giunto il momento di andare in pensione e di lasciare il posto al suo vice. Probabilmente, l’anziano presidente si aspettava che i suoi successori istaurassero una continuità politica rispetto alle sue decisioni; ciò che Mohamad non aveva previsto, era che di lì a poco la vecchia classe dirigente a lui fedele sarebbe stata spazzata via da un giovane membro del partito, l’ex ministro della difesa Najib Razak.
In pochi anni, questa nuova figura è riuscita a prendersi non solo lo United Malays Organisation, ma l’intero Paese. Per comprendere come ciò sia stato possibile, dobbiamo prima di tutto considerare i suoi rapporti con i Malay, la popolazione rurale meno istruita della Malesia, lontana da qualunque parentela o vicinanza con gli immigrati cinesi e indiani e, soprattutto, animata da idee politiche fortemente conservatrici. A loro, Najib Razak ha elargito una serie di concessioni ai limiti dell’inverosimile, tra le quali spiccano la possibilità di avere accesso a un maggior numero di posti nell’università rispetto a qualunque altro cittadino malese ma, soprattutto, la possibilità di essere gli unici a partecipare agli appalti pubblici. In cambio, i Malay hanno garantito a Razak non solo il proprio sostegno in massa alle elezioni, ma anche la disponibilità a stringere con lui una serie di affari quantomeno loschi.
L’ex presidente non solo ha dato prova di un senso etico fortemente discutibile, ma perfino di una scarsa discrezione. Le sue operazioni sono state spesso sfacciate, come quando ha trasferito sul suo conto in banca privato 700 milioni di dollari precedentemente stanziati presso un fondo pubblico, l’1MBD. Né del resto si può dire che il presidente abbia avuto la premura di nascondere le proprie ricchezze: viceversa, ha ben pensato di investire parte dei 700 milioni per acquistare uno sgargiante yatch di oltre cento metri con all’interno un cinema e un eliporto. Alcuni giornalisti del suo Paese hanno osato chiedergli come fosse possibile che un semplice funzionario statale potesse possedere una simile imbarcazione, e lui non ha avuto problemi a giustificarsi dicendo che si trattava del “regalo di un amico”.
Immediatamente, per le strade di Kuala Lumpur sono partite le prime proteste contro la disonestà del governo. Perfino l’Fbi ha aperto un’indagine internazionale per capire cosa stesse succedendo: “Il popolo di questo Paese è stato defraudato di un’enorme quantità di denaro” dichiarò nell’occasione il vicepresidente dell’Fbi, Andrew McNabe. Eppure, nulla di tutto questo servì in alcun modo a fermare Razak, il quale, anzi, forte del sostegno dei Malay, nel 2013 venne perfino riconfermato come presidente.
Immediatamente, il premier nominò un nuovo ministro della giustizia in grado di ostacolare qualunque indagine riguardasse le sue appropriazioni indebite, e così si preparò di fatto a istaurare una dittatura alla quale nessuno sembrava potersi opporre … nessuno, tranne un arzillo novantaduenne stanco delle politiche di Razak e delle sue negligenze, l’ex presidente Mahathir Mohamad.
Se in un primo momento infatti Mohamad aveva sopportato in silenzio la corruzione del suo successore, in seguito alle sue ultime provocazioni decise che era arrivato il momento di dire basta e di riprendersi il Paese. Subito, nella corsa di Mohamad si presentò un problema tutt’altro che trascurabile: non aveva un partito. Già, perché a causa delle divergenze con Razak tre anni prima era stato costretto ad abbandonare l’UMNO. Certo, avrebbe potuto candidarsi con l’Indigenous party, la principale forza politica d’opposizione; ma la maggior parte dei suoi esponenti, a causa della sua storia e del suo passato, non lo avrebbero mai accettato come un leader credibile.
In quel momento, l’ex presidente ebbe un’intuizione folle e al tempo stesso geniale: decise di recarsi in carcere per parlare con Anwar Ibrahim, quello stesso uomo che vent’anni prima aveva fatto arrestare per sodomia e che, sia pur rinchiuso in un penitenziario, continuava a guidare la propria coalizione. Non sappiamo esattamente cosa si siano detti; è probabile che l’ex premier abbia chiesto scusa, così come è probabile che i due abbiano avuto un confronto acceso. Ciò che è certo è che i leader politici sono riusciti a raggiungere un’intesa quanto mai singolare. Mohamad avrebbe utilizzato il suo carisma e la sua autorevolezza per sconfiggere alle elezioni Razak, ed una volta al governo avrebbe subito concesso la grazia a Ibrahim. Quest’ultimo, in cambio, avrebbe dovuto scrivere una lettera ai suoi compagni di partito, invitandoli a non alimentare alcuna forma di scetticismo o di ostilità nei confronti di Mohamad.
Il risultato? Con oltre il 48% dei voti l’Indigenous party ha vinto le elezioni ottenendo la maggioranza dei seggi e rendendo Mahathir Mohamad il capo di governo più anziano al mondo. Il suo primo atto una volta al potere è stato quello di far uscire dal carcere Ibrahim, il quale, dopo innumerevoli sofferenze, ha potuto finalmente riabbracciare i suoi cari. In compenso, in carcere potrebbe finirci molto presto Razak. Dopo la sua sconfitta elettorale, infatti, contro di lui è stato istituito un processo che, proprio nella giornata di ieri, ha portato la magistratura a formalizzare le accuse per i reati di corruzione, abuso d’ufficio e falsa testimonianza. L’ex premier ora rischia fino a vent’anni di reclusione.
In quanto a Mahathir Mohamad, prima delle elezioni aveva promesso che una volta eletto, nel giro di un paio d’anni, si sarebbe dimesso per permettere ad Ibrahim di diventare il nuovo premier del Paese, condizione senza la quale la sua vittoria alle elezioni sarebbe stata pressoché impossibile. Eppure, a questo punto sorge spontanea una domanda: e se alla fine decidesse di cambiare idea?