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Mali: elezioni bagnate dal sangue

Quando si pensa a due avversari politici, inevitabilmente, viene spontaneo immaginare due uomini dalle personalità del tutto contrapposte, dalle idee profondamente dissimili e dall’estrazione sociale fortemente distante. A quanto pare, questa regola generale non sembra applicarsi a una bellissima e al tempo stesso tormentata nazione del continente africano: il Mali. Già, perché i due partecipanti al ballottaggio presidenziale di domenica, Soumaila Cissé e il presidente uscente Ibrahim Keita, in fin dei conti, sembrano essere molto più simili fra loro di quanto non vogliano far credere. Entrambi hanno abbandonato la propria nazione da giovanissimi per frequentare il liceo in Francia, ed entrambi, dopo questa esperienza, hanno frequentato la prestigiosa università di Dakar, salvo rientrare in patria al termine degli studi. Entrambi, hanno iniziato la propria carriera pubblica lavorando per importanti organizzazioni internazionali: il West African Monetary Union nel caso di Cissé e l’European Development Found nel caso di Keita. Entrambi hanno quattro figli, entrambi in passato sono stati iscritti all’Union pour la république et la démocratie, uno dei più grandi partiti del Paese. Ma, soprattutto, entrambi prendono parte alla politica nazionale ininterrottamente dall’inizio degli anni ‘90. Di fatto, negli ultimi 25 anni in Mali non c’è stato un solo governo democraticamente eletto di cui non facesse parte almeno uno di questi due esponenti politici, il che ci lascia intendere quanto Cissé e Keita vengano percepiti dal popolo maliano come due candidati appartenenti alla casta politica del Paese, nonché come due uomini incapaci di guardare alle esigenze delle classi sociali più disagiate. Non c’è dunque da stupirsi se tale disillusione nei confronti della classe politica si sia tradotta in un’affluenza alle urne a malapena superiore al 40%.

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Alcuni potranno chiedersi per quale motivo una nazione così grande non tenti di proporre un’alternativa politica credibile e innovativa, ma la verità è che i precedenti non depongono a favore di una scelta di questo genere. Quando infatti nell’ormai lontano 2011 venne eletta come primo ministro Mariam Sidibé, una presidentessa donna (caso più unico che raro nell’Africa centrale) e indipendente, il Paese sprofondò nella guerra civile nel giro di neppure un anno. Il 22 marzo 2012, infatti, forse proprio a causa di un governo percepito come debole in quanto guidato da una donna, il Capitano Amadou Sanogo effettuò un autentico colpo di stato militare, proclamando la nascita di un nuovo esecutivo finalizzato al “ripristino della democrazia”. Ma non è tutto, perché i guerrieri Tuareg approfittarono quasi immediatamente della situazione per rivendicare l’indipendenza dell’Azawad, un territorio nel nord del Paese; e, quando si resero conto che le proprie forze non erano sufficienti per raggiungere un simile obiettivo, strinsero un’alleanza con una serie di gruppi legati al fondamentalismo islamico, i quali a propria volta entrarono armati a Timbuctu distruggendo molti luoghi dal valore storico e artistico.

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Occorse l’intervento aereo delle forze armate francesi per ripristinare l’ordine nella regione. Inevitabilmente, quella breve ma sanguinosa guerra civile segnò profondamente la coscienza di milioni di maliani. Quando il Paese tornò finalmente alle urne nel 2013, a contrapporsi vi erano (curiosamente) gli stessi candidati che si contrappongono oggi: Cissé e Keita. Vinse quest’ultimo con il 77,6% dei voti.

Il mandato quinquennale del presidente è stato contraddistinto da un crescente numero di azioni terroristiche: si calcola che, nella sola prima metà del 2018, in Mali siano stati compiuti 932 attentati, più di cinque al giorno. L’economia del Paese, malgrado una recente ripresa (i dati ufficiali del governo parlano d’una crescita del Pil superiore ai quattro punti percentuali) continua a vedere più della metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Per quanto riguarda la politica estera, invece, Keita ha voluto insistentemente rafforzare l’asse con la vicina Algeria e con gli altri Paesi del Sahel, malgrado tale scelta non abbia apparentemente portato alcun beneficio concreto.

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Alcuni si chiederanno come sia possibile che nonostante dei risultati così deludenti il presidente goda ancora di un significativo sostegno. La verità è che, come spesso accade in questi casi, la forza di Keita dipende dalla debolezza dei suoi avversari. Non solo il principale partito d’opposizione, l’URD, è stato incapace di proporre qualunque candidato diverso dal vetusto Cissé, ma perfino le altre figure istituzionali sembrano scarsamente capaci di garantire una sana e credibile alternativa democratica. Nel 2014, ad esempio, è stato nominato presidente dell’assemblea nazionale (l’unica camera parlamentare presente in Mali) Issaka Sidibé, un uomo perbene che, tuttavia, ha caratterizzato la sua attività presidenziale con la pressoché totale assenza di critiche nei confronti del governo, secondo i maligni anche a causa del fatto che, stranamente, è il consuocero di Keita.

I risultati ufficiali dello spoglio dovrebbero giungere nel corso dei prossimi giorni, eppure la riconferma dell’attuale presidente sembra essere poco più che una formalità. L’unica speranza di vincere per Cissé era infatti legata alla possibilità di ottenere un endorsement da parte dei principali candidati esclusi dal ballottaggio, l’imprenditore Aliou Diallo e l’ex premier Cheick Modibo Diarra, ma dal momento che ciò non è avvenuto il suo destino sembra segnato.

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Più che l’esito elettorale, erano due gli aspetti che incuriosivano gli analisti internazionali: la possibilità che queste elezioni si svolgessero nella più limpida regolarità e la garanzia che i cittadini potessero recarsi alle urne in un clima di assoluta sicurezza. Purtroppo, entrambe le sfide sembrano essere state perse. Dei ventiquattro candidati ufficiali, infatti, ben diciotto hanno denunciato brogli sporgendo ricorso alla corte costituzionale di Bamako. In alcuni seggi, addirittura, sono venuti a mancare gli scrutatori e le liste elettorali, il che fa sorgere più di un interrogativo sull’effettiva validità di queste elezioni.

Inoltre, numerosi atti d’intimidazione e di violenza hanno portato alla chiusura momentanea o definitiva di oltre il 20% dei seggi del Paese, impedendo di fatto a 246.000 maliani di votare. L’episodio più drammatico, tuttavia, è stato registrato ad Arkodia, un piccolo villaggio a sudovest di Timbuctu, dove il presidente di un seggio elettorale è stato brutalmente ucciso. Le autorità europee avevano nei giorni scorsi inviato 90 osservatori per sincerarsi del regolare svolgimento delle votazioni, eppure nessuno di loro è stato inviato a Mopti o a Kidal, che, sfortunatamente, rappresentano anche le zone più pericolose della nazione.

Naturalmente, le vicende politiche passano in secondo piano rispetto al dramma umano che il Mali sta vivendo. I nostri pensieri e le nostre preghiere non possono che essere rivolti non solamente alle recenti vittime di attentati, ma soprattutto ai numerosi cittadini che tutti i giorni convivono in un Paese dove, malgrado la presenza dei caschi blu, l’Isis, Al Qaida e altre organizzazioni terroristiche continuano a seminare morte, violenza e terrore.

Data:

14 Agosto 2018