È cosa abbastanza evidente e sotto la luce del sole, che chi fa informazione e si occupa di giornalismo, faccia politica, non nel senso dell’amministrazione della cosa pubblica e della lotta per il potere, ma nel senso di un’attività in eterna lotta tra ciò che è rappresentato dalla realtà dei fatti e ciò che invece viene poi esternato sotto forma di diffusione finale dell’informazione ai cittadini-lettori. Se la storia della carta stampata ha un suo excursus ben delineato sul tipo di informazione, sulla rincorsa spesso vaga e pretenziosa all’oggettività e ai fatti narrati e sull’autonomia di pensiero di chi compie il lavoro di giornalista, il racconto dei fatti oggi presentati grazie agli schermi dei nostri device, fa riflettere ancor di più sull’attendibilità delle fonti, la veridicità dell’informazione e la parzialità di certe affermazioni facenti capo a tecniche manipolatorie e acchiappa-click. L’assalto alla diligenza della stampa condotto in special modo negli ultimi 30 anni da parte di maggioranze politiche attente al controllo dell’informazione e a rispolverare vecchie e consolidate pratiche censorie, sembra oggi dirigersi alle nuove tecnologie della comunicazione digitale, nuovo fronte dove esercitare tecniche di controllo e pratiche di rafforzamento dell’immagine politica.
I social ancora una volta tornano al centro dell’attenzione mediatica dopo la lettera inviata da Mark Zuckerberg, padre fondatore di Facebook oggi Meta, alla Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti americana, in cui ammette di aver ceduto a richieste di censura tra il 2020 e il 2021, circa alcuni contenuti postati su Facebook da parte prima di agenzie federali statunitensi e poi da parte dell’amministrazione Biden. La denuncia è una notizia clamorosa se si pensa che molte piattaforme social sono ormai da anni sotto accusa per campagne di denigrazione, tentativi di controllo e spinte censorie anche in paesi dalla forte tenuta democratica. Nel giro di pochi anni, i social hanno preso il posto dei vecchi media nella dieta mediatica e informativa di miliardi di utenti, facendo perdere ai vecchi canali di flusso il loro posto privilegiato nel sistema di informazione ufficiale. Mezzi di propaganda per diffondere idee populiste ed estremiste, piattaforme ideali per critiche alla globalizzazione, luoghi di coltura per hater e revisionisti alla ricerca di sodali per le loro battaglie ideologiche, oggi anche l’establishment sembra ricordarsi della potenza social per condurre campagne di informazione e controinformazione sotto il proprio controllo. La pressione per portare le piattaforme social sotto un forte controllo politico e per frenare il dibattito pubblico ancora presente sulla stampa e all’interno dei salotti televisivi rappresentati dai talk, ha portato Zuckerberg ad ammettere che nell’ottobre 2020, con la campagna elettorale presidenziale in corso e in cui lottavano Trump e Biden, l’Fbi chiese di censurare la diffusione di un articolo apparso sul New York Post e che riferiva, con molti dettagli, del coinvolgimento dello stesso attuale presidente americano Biden in rapporti d’affari loschi del figlio con un’azienda ucraina. La cosa ancor più grave è che, ribaltando ogni velleità di libertà, autonomia e pluralismo di informazione, Facebook accettò di censurare, compromettendo di fatto e in maniera decisiva, il dibattito elettorale in corso.
Nel 2021 poi avvenne la recidiva, in quanto, stavolta su richiesta dell’amministrazione Biden, sempre Facebook censurò migliaia e migliaia di contenuti dai toni critici sulle decisione del governo in merito all’epidemia Covid-19 e circa le relative misure emergenziali. Le pressioni censorie, per la verità, nei confronti dei social non sono cosa nuova, se si pensa che Twitter, prima che diventasse l’elonmuskiana X, ebbe pressioni dello stesso tenore ad opera del governo americano che subito messe in atto. Zuckerberg oggi, tardivamente per onestà, ammette che aver ceduto a tali pressioni censorie è stato sbagliato, e, soprattutto, un tradimento della presunta (?) neutralità che una piattaforma dovrebbe avere. D’altra parte, a parziale giustifica di Zuckerberg, non è neanche possibile tollerare che un potere governativo invochi la censura di tutti i media, social compresi, nel momento in cui debba far prevalere una narrazione mainstream facendo ricorso a ragioni di ordine superiore come la sicurezza nazionale. La grande tradizione del pluralismo occidentale non può improvvisamente effettuare dopo decenni di impegno sulla veridicità dell’informazione e rispetto nei confronti dell’opinione pubblica, un’inversione a U verso una deriva totalitaria, seguendo i dettami di un’agenda populista il cui principale dettame è la sorveglianza e la sicurezza pubblica, la nuova ossessione di chi racimola voti e potere grazie alla mancanza della nostra voglia di informarci senza cadere nei tranelli delle fake news e della manipolazione forzata.