“Nel cervello c’è una zona speciale che potremmo chiamare memoria poetica che registra tutto quello che ci affascina o ci commuove, cioè che rende bella la nostra vita”.
Milan Kundera, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.
“In fin dei conti, che cosa è rimasto di quel tempo lontano? Per tutti, oggi, quelli sono gli anni dei processi politici, delle persecuzioni, dei libri all’indice e degli assassinii giudiziari. Ma noi che ricordiamo dobbiamo portare la nostra testimonianza: non fu solo il tempo del terrore, fu anche il tempo del lirismo! Il poeta regnava a fianco del carnefice. Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro si danzava. Ah no, non era una danza macabra. Lì danzava l’innocenza! L’innocenza col suo sorriso insanguinato”. Milan Kundera, “La vita è altrove”.
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L’Europa vista dai paesi centroeuropei
Quando, nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Sol�enicyn sulla censura nell’Urss, si tenne in Cecoslovacchia il “IV Congresso dell’Unione degli scrittori”, ad aprire i lavori, con un discorso su “La letteratura e le piccole nazioni” fu Milan Kundera, allora già autore di successo.
Fu quel congresso a segnare la rottura fra scrittori e potere e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema avesse accelerato il disfacimento della struttura politica, in un progetto che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte degli ideologi di regime.
Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle “piccole nazioni”, appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali.
Questo discorso si collega ad un altro intervento del 1983, destinato a “rimodellare la mappa mentale dell’Europa” prima della caduta del muro nel 1989. Con estrema lucidità e chiarezza argomentativa Kundera accusa l’Occidente di avere assistito inerte alla “sparizione” del suo lembo orientale, essenziale crogiolo culturale.
Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tutti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 avevano dato vita a coraggiose rivolte, sorrette dal “connubio di cultura e vita, creazione e popolo”, non erano infatti agli occhi dell’Occidente che una parte del blocco sovietico. L’invasione sovietica di Budapest e Praga – spiegava Kundera -, era l’espressione di un’idea culturale del continente, quella stessa espressa da Putin anche in relazione alla democrazia illiberale che l’occidente ha difficolta a decifrare, come oggi succede con l’Ucraina, che si sforza di convincere l’Europa occidentale che in gioco c’è il presente e il futuro dell’Europa e della democrazia. Non ce ne siamo accorti allora e molti continuano a non accorgercene anche adesso.
Tutto questo viene raccontato e sottolineato nel libro di Milan Kundera, presentato da Jacques Rupnik e Pierre Nora “Un Occidente prigioniero”, pubblicato da Adelphi nel 2022, che raccoglie questi due interventi, dove Kundera propone una visione centroeuropea del mondo, che oggi, alla luce della guerra di aggressione della Russia sull’Ucraina, che insiste sulla sua appartenenza all’Europa, si illumina di rinnovato significato.
Ma di quale Europa parla Kundera?
Mentre l’invasione russa in Ucraina è giunta all’anno e mezzo, non si intravede in realtà nessuna via uscita e nessuna volontà di arrivare ad una risoluzione del conflitto, l’impressione è che in occidente e nell’Europa che stiamo esaminando, si interpreti il conflitto in modo molto ambiguo, sia nella coscienza che nel dibattito pubblico.
Lo slogan vergognoso della “denazificazione”, preso a pretesto dalla Russia per aggredire e invadere l’Ucraina, in realtà – e questo viene sostenuto dallo stesso Putin -, serve a giustificare il ritorno alla grande Russia imperiale, ai danni di tutte le “piccole nazioni” – per dirla con Kundera-, che si sono costituite dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
E tuttavia, proprio di fronte alla resistenza eroica dell’Ucraina, paese aggredito dall’invasione di Putin, paese indipendente e col pieno diritto di esercitare la propria sovranità e di difenderla, dovremmo cogliere la “complessità” della situazione, cercare soluzioni razionali, dar peso alla “verità effettuale”, salvando non solo le vite, ma anche raccogliendo il grido dell’Ucraina nella conferma della sua appartenenza all’Europa. La prospettata annessione all’ Unione europea è un passo importante.
Ma torniamo alla domanda iniziale: ma di quale Europa si parla? Di quale Europa parla Kundera e a quale Europa pensa il presidente ucraino Zelensky?
Nelle due conferenze di Milan Kundera che Adelphi pubblica appunto con il titolo “Un Occidente prigioniero” e soprattutto nella seconda – il testo del 1983, il muro di Berlino, la cortina di ferro erano ancora in piedi – Kundera parte dai fatti del settembre ’56 in Ungheria, quando i carri sovietici entrano a Budapest. Il direttore dell’agenzia di stampa ungherese trasmise il suo ultimo dispaccio: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”.
Naturalmente – precisa Kundera – il direttore non voleva dire che i carri russi fossero pronti a “varcare le frontiere ungheresi e dirigersi a Ovest”, ma che in Ungheria “era l’Europa a essere presa di mira. Perché l’Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire”.
È chiaro – a solo rifletterci – che in gioco allora come ora c’è il destino dell’Europa, dell’Occidente europeo, quasi sessanta anni dopo i fatti di Ungheria, quasi cinquanta dopo quelli di Praga. Ma quando diciamo che in Ucraina è in gioco il destino della democrazia in Europa – come ripetono senza stancarsi il presidente Zelensky e il consigliere Podolyak – di quale Europa parliamo?
Del progetto di Ventotene? Della fortezza spaventata e cattiva che si blinda contro i migranti? Dell’Europa vaso di coccio tra la Russia, la Cina e gli Usa? Per Kundera di “Un Occidente prigioniero” la grande questione irrisolta era “la tragedia dell’Europa centrale”, la necessità di ripensare il destino di quei Paesi fuori dalla cappa oppressiva del comunismo sovietico e dell’irrilevanza.
Era possibile ripensare a un cammino autonomo nella storia pe la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Polonia? Dipende da molte cose – ragionava Kundera – dipende soprattutto dalla nostra capacità di mettere in prospettiva le cose e ricollegarci senza ottuso orgoglio nazionalistico al passato per decifrarlo. “In qualche modo – affermava Kundera – la storia ceca è ancora bloccata alla Montagna Bianca, attardata nell’orrore della Guerra dei Trent’anni, ferma al Seicento. Quando alla fine di quel conflitto si definì un nuovo assetto dell’Europa e del mondo con la pace di Westfalia, i cechi, e gli altri Paesi dell’Europa dell’Est, furono esclusi, congelati nel ruolo di “piccole nazioni”, messi ai margini. Se le grandi nazioni europee, dentro una storia “classica”, si sono evolute in un quadro culturale comune “i cechi, che hanno conosciuto in modo alternato periodi di sonno e veglia, si sono invece lasciati sfuggire molte importanti fasi dello sviluppo dello spirito europeo. Per i cechi nessuna conquista è mai stata incontrovertibile, né la lingua, né l’appartenenza all’Europa”.
Di quale Europa parliamo ora?
Ma il dramma – aggiungeva Kundera – è che nel frattempo l’Europa è mutata e l’Occidente si è auto-imprigionato in una nuova forma di vita intollerabile: la cultura ha ceduto il suo posto al capitalismo finanziario ed allo svago disimpegnato. “Nel medioevo, l’unità europea si fondava sulla cristianità, e nei tempi moderni sui lumi. Ma oggi? La rimpiazza una cultura dello svago, legata ai mercati e alle tecnologie dell’informazione”.
Che senso può avere, allora, il progetto europeo?
Alla luce della nostra domanda, l’ultimo passo della conferenza del 1983 è illuminante: “La vera tragedia dell’Europa dell’Est non è la Russia, ma l’Europa, quell’Europa per la quale il direttore dell’agenzia di stampa ungherese era pronto a morire, ed è morto, tanto rappresentava per lui un valore essenziale. Al di là della cortina di ferro non sospettava neppure che i tempi erano cambiati e che in Europa, l’Europa non è più sentita come un valore. Non sospettava che la frase inviata per telex oltre i confini del suo Paese privo di rilievi aveva un’aria desueta e non sarebbe mai stata capita”.
Scrive Pierluigi Battista: “Come siamo stati ottusi, noi europei satolli e ammuffiti, appisolati nel conforto del benessere occidentale, a non voler capire la straziante invocazione di Milan Kundera all’Europa di ritrovare sé stessa a Praga, a Budapest, a Varsavia. A lasciare inascoltato l’appello accorato di Kundera, dell’esule Kundera: non chiamateci Europa dell’Est, non schiacciate la nostra cultura europea sotto il tallone russo-sovietico, siamo Mitteleuropa, siamo il cuore dell’Europa e ci uccidete due volte ingabbiandoci nella definizione offensiva di “Europa dell’Est”.
(Continua)