In questi nostri giorni l’ho cercato. L’ho cercato nelle case degli amici, attraverso le vetrine illuminate, persino nelle chiese. E’ impegnativo, occupa spazio, richiede tempo. A cosa alludo? Alludo al presepe, (come si chiama oggi) o presepio (come si soleva chiamarlo fino a qualche decennio fa). Per secoli unico simbolo della cristianità il presepe è stato anche un rito collettivo che coinvolgeva l’intero nucleo familiare nell’opera di allestimento. Presente ovunque, maestoso con sfoggio di figurine e ambienti, ovvero nella essenzialità di una natività all’interno di una capanna di semplice cartapesta o di trucioli di legno assemblati, richiamava alle menti non solo un evento che avrebbe segnato il corso della storia e ma richiamava i cuori alla contemplazione di una gioia riposta nell’umiltà, del vivere nella felicità garantita dalle piccole cose, da un lento scorrere del tempo nella sua profondità assaporando ogni attimo di dolcezza, all’interno delle proprie dimore, prive di blindature ma con porte sempre pronte a spalancarsi per cogliere il respiro del mondo, accogliendo con un sorriso o andando verso chi è sempre fuori ad in attesa di un aiuto. Sembra che in questi nostri tempi la felicità abbia smarrito la mappa in cui orientarsi e abbia finito con il mimetizzarsi, tra liste delle spese, nell’ansia di cene e pranzi, del regalo da fare e in quello da riciclare.
E allora? Riflettendo sul clima di diffuso politicamente scorretto e di devastanti lai e strida in cui sciamano narcisismi e disprezzo di ogni valore mi chiedo dove potrà convergere l’Umanità. Dove incontrarsi mettendo da parte un attimo del proprio tempo ascoltare l’altro (quel “prossimo” di cui pochi sanno chi sia e che esiste) per ricordare a se stessi che “la gente che vive si incontra”, che cor ad cor loquitur. Che un presepe, simbolico o realistico che sia, può rappresentare la sacralità di un incontro con la Storia, ovunque esso si trovi, all’interno delle case e al di fuori, e, magari tenendo per mano un bambino, l’inizio di un racconto.
Come che sia, è un motivo per condividere un momento di luce per il quale vale la pena di investire il proprio tempo dando anche, perché no, libero sfogo all’estro. Talvolta il risultato può essere imprevisto e sconcertante, talvolta non del tutto teologicamente allineato. Ordini diversi si scontrano, spesso senza alcun margine di intesa.
Già c’è comunque la statuina del pastorello, nel presepe napoletano chiamato Benino, che se la dorme bellamente, alla faccia di tutti gli annunci angelici. O quello della tradizione siciliana, zu’ Innaru, che a staccarsi dal caldo focolare non ci pensa proprio. Ma ci sono pure e duie cumpare zi’ Vicienzo e zi’ Pascale che devono prima concludere la partita a carte.
Che dire poi dei Re Magi con il loro corteo di cammelli e servitù?! A qualche metro di distanza, dalla credenza di una cucina o dalla fucina di un maniscalco, cominciano la loro lenta marcia di avvicinamento alla Betlemme in miniatura. E poi zampognari che disturbano la quiete pubblica, artigiani di ogni tipo alle prese con prosciutti e caldarroste, altri personaggi strampalati che sembrano usciti direttamente da qualche favola. Non tutti sembrano coinvolti dalla nascita misteriosa accaduta lì accanto, nella capanna.
Anzi, se proprio devo dirla tutta, qualcuno sembra proprio neanche essersene accorto. Dopo il passaggio di bambini e gatti, ci sono pure pastori del tutto «fuori rotta»: qualcuno distantissimo dalla meta da dubitare che arriverà mai in tempo alla festa, qualcun altro in cammino verso tutt’altra parte e immerso in pensieri e dubbi, altri stesi a terra tramortiti come se la notte fosse giunta inaspettatamente poco prima di loro.
Qualche statuina sembra stanca di esserlo per quanto è malconcia per gli anni di servizio. Tutti sono esemplari di quell’umanità sconosciuta, i cui volti sono sul muro dell’ufficio dello sceriffo tra gli uomini meno ricercati al mondo. Eventualmente il volto radioso di un pastore esprime, a nome di tutti, la meraviglia per tutta quella grazia, e la consapevolezza di esserne indegno giacché anche solo un po’ di essa sarebbe stata comunque tanta e più del meritato.
E io mi ritrovo ogni volta comunque a commuovermi di fronte a un presepe. Per quanto disordinatissimo resta per me ancora comunque un presidio permanente di quella misericordia divina che mi infonde la speranza che ci sarà un luogo d’incontro in un tempo vicino in cui gli uomini tutti saranno umani.
Voglio credere che tutte le religioni convergeranno in un tempo vicino in una contemplazione rigeneratrice e nell’affermazione dell’amore come unica via contro l’innata natura ferina degli uomini.
Voglio credere in un avvento panreligioso all’insegna dell’umanità vera senza dogmi e miti fondati su sacrifici di sangue, visioni metafisiche, riti trionfali o penitenze dietro i quali si nascondono crudeli disuguaglianze sociali, voraci sperperi e macabri scempi della natura.
Voglio credere, con il grande poeta e scrittore Oliver Friggieri, che se con un desiderio distruggiamo tutto, con un solo desiderio trainiamo una vita intera.
Tutto ciò penso mentre guardo il mio presepe e voglio credere che avverrà… in un tempo vicino.
Buon Natale!
Le parole di Antonella Giordano evocano immagini di una felicità radicata nella semplicità e nella lentezza, nelle porte aperte e nei sorrisi sinceri. La sua riflessione sul presepe emerge come un ricordo nostalgico che si trasforma in un invito a ritagliarsi uno spazio per la riflessione e a riscoprire il senso autentico del vivere. In un tempo in cui tutto sembra muoversi troppo in fretta e senza sostanza, la sua visione ci richiama a una dimensione di umanità più profonda, in cui ogni gesto, anche il più semplice, può diventare simbolo di una grazia che non necessita di essere proclamata, ma solo vissuta.
Ogni statuina nel presepe, dai pastori distratti ai Re Magi in cammino, assume un significato che va oltre il racconto religioso: si fa metafora della nostra esistenza, con le sue contraddizioni e i suoi momenti di smarrimento. La bellezza del presepe non sta nell’armonia perfetta, ma nel disordine che, pur nella sua imperfezione, racchiude la verità dell’essere umano. È un invito a vedere l’altro così com’è, senza pretesa di cambiamento, ma con la volontà di accogliere ciò che ogni individuo porta con sé, come in una giostra di emozioni e storie che ciascuno di noi è.
Il presepe non è solo un simbolo di un passato lontano, ma diventa una finestra aperta sul presente. È un momento di riflessione che ci richiama a una vita più autentica, dove ogni piccolo atto di generosità, ogni gesto di cura e ascolto, contribuisce a costruire un mondo più umano. Le figure malconce, i pastori fuori rotta, i Re Magi che procedono lentamente, sono tutti segni di una società che, pur nelle sue difficoltà, conserva la possibilità di un incontro. Un incontro che può avvenire anche solo nel silenzio di una contemplazione, nell’osservazione di un angolo di mondo che spesso ignoriamo.
Il desiderio di vedere un avvento panreligioso, un’umanità che va oltre le divisioni e le ingiustizie, è un sogno che trascende la fede religiosa. È la speranza di un incontro universale, di una condivisione di valori che vanno oltre ogni dogma, ogni rituale che nasconde in sé l’ombra delle disuguaglianze e dei conflitti. La visione della Giordano ci invita a guardare oltre le apparenze, a ricercare l’essenza di ciò che ci rende umani: la capacità di amare senza condizioni, di accogliere senza giudicare, di creare un mondo in cui la misericordia sia la legge.
Guardare un presepe, quindi, non è mai un gesto banale. È un invito a fermarsi, a respirare, a prendere coscienza del nostro essere parte di una storia che è tanto collettiva quanto individuale. È un richiamo a vedere la bellezza nelle piccole cose, a cogliere la luce anche nel disordine. Perché, come l’autrice scrive, è nella semplicità che spesso si nasconde la verità più grande. E forse è proprio lì, in quel disegno imperfetto, che possiamo trovare la speranza di un mondo più giusto, più accogliente, più umano.
Con gratitudine e auguri di luce. (Prof. Vincenza Pellegrino)