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Nuova Zelanda: il bunker dei miliardari

Nell’estremo sud del Pacifico, a circa 2.000 chilometri dalla ben più vasta Australia, sorge un piccolo arcipelago pieno di spiagge tropicali e di imponenti catene montuose. Un luogo isolato, dove la presenza della maggioranza cristiana e anglofona coesiste pacificamente con i Māori e con altre tribù cosiddette primitive, alle quali è affidato il prezioso compito di conservare gelosamente l’antica saggezza e le sfaccettature più mistiche della cultura locale. Scoperta da James Cook nel XVIII secolo, la Nuova Zelanda viene tutt’ora percepita, nell’immaginario della popolazione occidentale, come un’oasi pressoché incontaminata dalla corruzione e dalle brutalità del mondo esterno. Una piccola e felice nazione in grado ispirare, forse per i suoi paesaggi naturali o forse proprio per la sua natura selvaggia e autarchica, un numero inimmaginabile di artisti, scultori e romanzieri. È il caso di J.R.R. Tolkien, il quale s’ispirò proprio alla Nuova Zelanda per descrivere la terra di mezzo del suo celebre “Il signore degli anelli” (a distanza di anni, anche la trilogia cinematografica ispirata al capolavoro fantasy venne girata in Nuova Zelanda). Eppure, questo piccolo arcipelago non è solo un luogo folkloristico in grado di animare le nostre più astruse fantasie, ma anche un Paese che nei secoli ha messo al centro della propria politica interna la questione dei diritti. Non è un caso se la Nuova Zelanda è stata prima nazione al mondo in cui le donne hanno ottenuto il diritto di voto, come non è un caso se l’attuale premier, la laburista Jacinda Ardern, sia per l’appunto una donna; inoltre, con i suoi trentotto anni, la Ardern è il più giovane capo di governo al mondo.

Il popolo neozelandese esprime orgogliosamente uno spirito battagliero, ereditato probabilmente dagli antichi guerrieri che abitavano un tempo la regione. Malgrado l’esigua popolazione, infatti, la nazionale di rugby locale, i cui giocatori sono noti anche come “All Blacks,” detenga ad oggi il record di coppe del mondo vinte in questa disciplina, oltre ad occupare il primo posto nel ranking mondiale. In modo particolare, va ricordata la tradizionale danza che gli All Blacks eseguono prima di ogni incontro, la Haka, ispirata (e non è un caso) proprio alla tradizione delle tribù Māori.

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Bene, forse è stato proprio il suo fascino tribale o forse, più probabilmente, il suo sistema fiscale vantaggioso e la sua posizione geografica isolata a far sì che la Nuova Zelanda stia divenendo ad oggi il bunker di quasi tutti gli uomini più ricchi del mondo. Intendiamoci, il bunker di chi gode d’un lauto conto in banca è ben diverso dai bunker delle persone normali, funzionali solo a mettersi al riparo in caso d’emergenza o a proteggersi da persone che potrebbero volerci fare del male. Il bunker dei paperoni, in realtà, è uno stato sovrano disposto a fornire loro accoglienza in caso di problemi con i propri Paesi d’origine. Non è un mistero che fra l’alta borghesia statunitense, e più in generale fra i miliardari di tutto il mondo, la frase “ho acquistato una proprietà immobiliare in Nuova Zelanda” stia diventando un’espressione in codice sempre più diffusa e utilizzata. In modo particolare, uno dei fondatori di LinkedIn, Reid Hoffman, ha rivelato in un’intervista che oltre il 50% degli imprenditori della Silicon Valley sarebbero disposti, nei prossimi anni, a trasferirsi definitivamente dall’altra parte del Pacifico in caso di necessità.

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Ottenere la cittadinanza del Paese oceanico può davvero essere così semplice? Per gente dalle inesauribili risorse economiche, si direbbe proprio di sì. Basta vede quanto accaduto soltanto pochi anni fa a Peter Thiel, imprenditore di origini tedesche, co-founder di Paypal e membro effettivo della Bilderberg. Spinto da una serie di ragioni personali, Thiel ha infatti investito 13,5 milioni di dollari per acquisire un terreno di quasi 200 ettari sul Lago Wanaka, oltre a diversa proprietà nella regione. Il risultato? Dopo aver trascorso solo dodici giorni in Nuova Zelanda, ed aver egli stesso ammesso di non aver alcuna intenzione di trasferirsi definitivamente nell’arcipelago, ha ugualmente ottenuto la cittadinanza neozelandese. Ovviamente, l’episodio non ha potuto far a meno di generare numerose critiche sia nei confronti del miliardario tedesco, per la sua condotta, che nei confronti del governo locale per la sua accondiscendenza. L’opinione pubblica si è quasi immediatamente divisa fra chi crede che aprirsi a capitali stranieri possa essere vantaggioso per le finanze neozelandesi e chi invece teme che concedere troppo facilmente la cittadinanza possa portare a una sorta di colonizzazione moderna. In questo senso, occorre ricordare che la legge neozelandese non prevede la concessione della cittadinanza se non a chi risiede nel Paese stabilmente da almeno 5 anni; eppure, la stessa legge prevede anche che in casi straordinari si possa fare un’eccezione alla regola … e sappiamo bene che, possedendo un patrimonio di 2,7 miliardi di dollari, non sarà difficile essere annoverato fra le “eccezioni alla regola”.

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Ma perché così tanti miliardari dovrebbero sentire la necessità di emigrare? Perché una persona alla quale, almeno sul piano materiale, non manca nulla nella vita dovrebbe mettersi in gioco e recarsi a vivere in una nazione straniera? È molto difficile trovare un’unica risposta a questa domanda, così com’è difficile spiegare questo fenomeno limitandosi a un’osservazione oggettiva della realtà senza scivolare in una disamina psicologica. In parte, questo fenomeno può essere motivato dalla paura di perdere ciò che si possiede; una paura che, come sappiamo, tende ad essere molto più radicata nelle persone benestanti. Esistono poi le motivazioni politiche: l’esigenza di avere in Wellington un interlocutore sensibile alle proprie esigenze nel caso in cui si venisse “traditi” dalle politiche del proprio Paese natio. È quanto accaduto per esempio negli Stati Uniti, dove durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016 Donald Trump ha manifestato l’intenzione di chiudere numerosi siti Internet in nome della sicurezza nazionale, scatenando l’opposizione della maggior parte degli imprenditori del settore tecnologico. In modo particolare, il Ceo della Apple, Tim Cook, aveva minacciato di spostare la sede legale della propria azienda dall’assolata California alla Nuova Zelanda. Il risultato? Donald Trump ha vinto le elezioni, ma della sua crociata contro Internet non abbiamo più avuto alcuna notizia, e la crisi è stata (momentaneamente) scongiurata. Eppure, indipendentemente dalla singola polemica, occorre focalizzare l’attenzione sul fatto che le nuove tecnologie stanno causando un brusco aumento della disoccupazione, un fattore che, sul lungo periodo, potrebbe generare rivolte sociali proprio contro i proprietari di aziende che ad oggi investono nell’hi-tech.

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Altre ragioni per emigrare potrebbero essere legate al terrore di massicci attacchi cibernetici, magari provenienti dalla Cina o dalla Russia, o, secondo l’ipotesi più catastrofista e apocalittica, alla paura di un terribile conflitto mondiale generato dalle tensioni geopolitiche diffuse in tutto il mondo. Scenari a dir poco pessimistici oltre che, a detta di molti, estremamente fantasiosi. Eppure, nel caso in cui la situazione dovesse evolversi per il peggio, l’élite finanziaria ed economica globale ha già scelto il luogo dove rifugiarsi. Proprio per la sua posizione, infatti, è assai improbabile che una guerra nucleare o una qualunque catastrofe possa coinvolgere la distante ed isolata Nuova Zelanda. Ai catastrofisti occorre tuttavia ricordare, con un pizzico d’ironia, che l’Oceania è il continente del globo maggiormente soggetto a terremoti e ad eruzioni vulcaniche e pertanto, anche emigrando lì, il pericolo di catastrofi non sarebbe affatto scongiurato.

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Naturalmente, noi tutti ci auguriamo che nulla di male possa accadere al mondo in cui viviamo e che nessuna follia umana possa creare così tanti danni da costringere i miliardari a recarsi nel proprio bunker-nazione. Eppure, questa storia fa riflettere su un tema ben più concreto degli attacchi cibernetici o di distopiche rivolte sociali: cosa accadrebbe se, per una qualunque ragione o anche per una semplice convenienza fiscale, i miliardari di tutto il mondo dovessero improvvisamente decidere di investire il proprio intero capitale in Nuova Zelanda? Gli Stati Uniti e tutte le altre nazioni occidentali, verosimilmente, si ritroverebbero in ginocchio prima di potersi rendere conto di cosa sta davvero succedendo. E questo, forse, è il segno più tangibile di un’egemonia della finanza sulle nazioni. In merito a questo argomento, francamente, sarebbe opportuno avviare una riflessione immediata e approfondita; in caso contrario, presto ci ritroveremo a chiederci perché i nostri governi sono divenuti così deboli rispetto ad un esiguo gruppo di miliardari.

Data:

13 Marzo 2018