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NUTRIRSI DI ALTERITÀ

La cultura Occidentale, da sempre frutto di ibridazioni precedenti, a partire dal XV secolo ha costruito una retorica dell’identità, enfatizzando rigidamente la propria egemonia nei confronti delle altre culture. La realtà viene ridotta ad un’aggressiva contrapposizione binaria fra un ‘noi’, visto come un ‘Sé collettivo’ di appartenenza sociale omogenea e compatta e gli ‘altri’, visti come i diversi e i nemici disumanizzati contro cui schierarsi. Nella nostra società odierna, multietnica e multiculturale, è difficile riuscire a distinguere cosa appartenga alla nostra cultura e quali siano, invece, le influenze provenienti da culture differenti che continuano a plasmare la nostra identità, preda di un caotico flusso interminabile. L’identità è in continuo cambiamento e viene plasmata, ogni giorno, grazie al confronto con l’alterità, la quale contribuisce a creare confini che tendono, nella nostra cultura, a moltiplicarsi quotidianamente. Tuttavia, contro ogni logica comune, esistono popoli in Africa con un’idea di cultura più aperta verso tale alterità, tanto disdegnata in Occidente, basata sull’interscambio fra identità diverse, come sostiene l’antropologo italiano Francesco Remotti: “In Africa esistono gruppi che sono ben coscienti di come la loro identità sia la risultante di un incontro con altri, di una contrapposizione a essi ma anche di uno scambio e di una mescolanza. Forse il caso più clamoroso di come l’identità possa essere pensata come effetto di una commistione è quello degli indios brasiliani Tupinamba, i quali praticavano il cannibalismo nei confronti dei prigionieri di guerra”.

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L’identità degli indios Tupinamba vive e muore di alterità per conservarsi: attraverso la pratica del cannibalismo rituale, i Tupinamba si nutrono dell’alterità, assimilando il nemico di guerra alla propria identità. Quando il guerriero di una tribù avversaria viene catturato, prima di essere mangiato, subisce un processo di inserimento nella società nemica. Il prigioniero nella comunità avversaria avrebbe occupato il posto del guerriero ormai morto in guerra; a lui venivano procurate donne, gli veniva data la possibilità di costruire una casa e farsi una famiglia, durante una permanenza che poteva oscillare da pochi mesi a lunghi anni, durante la quale sarebbe stato il protagonista di una sorta di “purificazione”, sostituendosi all’ucciso. Questo crudele destino, viene, in realtà, con gioia accettato da ogni prigioniero, onorato di poter morire nei corpi del nemico e di scomparire nelle loro membra. Con le parole dell’antropologo italiano Ugo Fabietti sul cannibalismo rituale dei Tupinamba: “Prima della sua uccisione l’esecutore e la vittima imbastivano un dialogo durante il quale ognuno vantava le uccisioni e gli atti di cannibalismo, propri e dei propri antenati, commessi nei confronti dei rispettivi gruppi.” -continua Fabietti- “Il risultato era che i due gruppi, mangiandosi l’uno con l’altro, risultavano legati sul piano della ‘sostanza umana’ incorporata.” L’altro viene inghiottito fieramente nella cultura del nemico, alla quale deve cercare di assomigliare, orgoglioso di poter affrontare così la morte e di poter rivivere nel corpo dell’altro che un bel giorno sarà mangiato a sua volta dai membri della propria comunità, in un turbinio vorticoso di atti di cannibalismo che costituiscono un’“identità mescolata”.

Data:

24 Febbraio 2019