E’ di questi giorni la notizia che la U.S. Preventive Services Task Force (USPSTF) ha aggiornato le proprie raccomandazioni sullo screening dell’osteoporosi per la prevenzione delle fratture.
Nella nuova versione, appena pubblicata su JAMA, gli esperti dedicano una particolare attenzione allo screening nelle donne in menopausa con meno di 65 anni. Quasi in contemporanea è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio che dimostra che la somministrazione di zoledronato tra i 50 e i 60 anni – nella cosiddetta early menopause – in assenza di osteoporosi conclamata, riduce significativamente il rischio di fratture vertebrali.

La prevenzione ha un ruolo essenziale ma, come evidenziato da Elena Riboldi nell’articolo (Osteoporosi: nuove regole per lo screening e un farmaco per la prevenzione – https://www.univadis.it/ del 30/01/2025) che riporto, deve essere mirata.
Bisognerebbe iniziare decenni prima
“La vera prevenzione primaria delle fratture andrebbe fatta nelle scuole, prima del picco di massa ossea che viene raggiunto a 25-30 anni”, dice a Univadis Italia Fabio Vescini, direttore della Struttura Operativa Complessa di Endocrinologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Udine e Segretario generale della Società Italiana dell’Osteoporosi del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS). “Dopo i 35 anni, indipendentemente dal sesso, si comincia a spendere inesorabilmente lo 0,5-1% di massa ossea all’anno e si può intervenire solo farmacologicamente per frenare questa perdita. Il momento più giusto per la prevenzione è la gioventù: bisogna lavorare sulla nutrizione, sullo sport, sulla regolarità mestruale ecc. per raggiungere la qualità ossea migliore possibile” ha spiegato l’esperto.
La salute dell’osso invece viene solitamente presa in considerazione solo quando ci si avvicina all’altro estremo della vita, quando le fratture sono ormai una minaccia concreta. È allora che ci si sottopone allo screening per l’osteoporosi mediante Mineralometria Ossea Computerizzata (MOC), nota anche come Dual Energy X-ray Absorptiometry (DXA).
Lo screening non è una cura
“Le linee guida italiane raccomandano di eseguire almeno una volta la densitometria nella donna di 65 anni o più. Non ci sono evidenze che giustifichino lo screening per gli uomini”, spiega l’endocrinologo. Anche l’USPSTF raccomanda lo screening nelle donne a partire dai 65 anni e afferma che non ci sono prove sufficienti a favore o a sfavore dello screening nell’uomo.
“In una donna con fattori di rischio (fumo di sigarette, consumo di alcol, familiarità per la frattura di femore) è prassi ripetere la densitometria dopo 3-5 anni; in assenza di fattori di rischio l’esame non andrebbe ripetuto, anche se non è ciò che avviene nella realtà” prosegue, criticando un errore frequente. “Purtroppo, vedo molte persone che si sottopongono all’esame ogni 18 mesi senza fare poi nulla e con densitometrie già patologiche continuano a ripetere l’esame sperando inutilmente in un effetto terapeutico della misurazione. Non basta fare la densitometria: se si scopre l’osteopenia o l’osteoporosi vanno attuate tutte le opportune misure profilattiche (modifiche nello stile di vita, apporto di calcio e di vitamina D, terapie farmacologiche…): allora sì, si riduce il rischio di frattura”.
In alcuni casi è utile anticipare l’esame
Secondo l’USPSTF si può concludere con moderata certezza che “lo screening per l’osteoporosi per prevenire le fratture osteoporotiche nelle donne in postmenopausa di età inferiore a 65 anni ad alto rischio ha un moderato beneficio netto”. Per selezionare le persone più giovani da sottoporre a DXA, gli esperti americani suggeriscono innanzitutto di stabilire se ci sia almeno un fattore di rischio per l’osteoporosi e di utilizzare poi uno strumento per la valutazione del rischio come l’Osteoporosis Self-Assessment Tool (OST) o l’Osteoporosis Risk Assessment Instrument (ORAI).
“La DXA è una metodica diffusa, semplice e poco costosa e il rischio radiante è davvero basso: per una densitometria si usa una dose compresa tra 2 e 4 μSv, molto meno della dose di radiazioni cosmiche (10 μSv) a cui si è esposti in un viaggio andata e ritorno New York-San Francisco” spiega Vescini. È quindi un buon strumento di screening, secondo l’esperto, ma eseguire la DXA a tappeto su tutte le donne che vanno in menopausa non è corretto.
“Si può invece anticiparla tra i 50 e i 65 anni se c’è un fattore di rischio maggiore per la frattura” dice ancora. “Come SIOMMMS ci eravamo già espressi in questo senso e questo sostegno delle linee guida americane è sicuramente importante”.
Si possono anticipare anche le terapie?
Lo screening può essere utile per individuare le donne candidate a una terapia farmacologica. Lo zoledronato potrebbe essere impiegato anche prima della comparsa di osteoporosi, suggerisce lo studio dell’Università di Auckland (New Zealand).
Gli autori hanno arruolato 1.053 donne in early menopause con un valore densitometrico che indicava una densità minerale ossea normale o al massimo una condizione di osteopenia (T-score non inferiore a -2,5). Le partecipanti sono state randomizzate per ricevere un’infusione di zoledronato (5 mg) alla baseline e dopo 5 anni, solo alla baseline oppure il placebo. L’endpoint primario dello studio era la frattura vertebrale morfometrica (individuata mediante osservazione radiografica).
Nei 10 anni di follow-up, si sono verificate fratture vertebrali nel 6,3% delle partecipanti trattate con due dosi di zoledronato, nel 6,6% di quelle trattate con una sola dose e nell’11,1% delle partecipanti assegnate al placebo. Rispetto al placebo, il rischio relativo di frattura vertebrale incidente era pari a 0,56 (95% IC 0,34-0,92; P=0,04) con due dosi di zoledronato e a 0,59 (95% IC 0,36-0,97; P=0,08) con una dose. Con lo zoledronato riduceva il rischio di frattura, di frattura patologica e di frattura osteoporotica maggiore (endpoint secondari).
“Lo studio è disegnato bene, la numerosità del campione è corretta e la statistica è buona: mi è piaciuto molto questo articolo” commenta Vescini, ricordando che gli stessi autori avevano già dimostrato l’efficacia dello zoledronato nella prevenzione delle fratture da osteopenia nelle donne anziane in un articolo pubblicato su NEJM pochi anni fa.
È uno studio practice-changing
“Con un costo ridicolo – una fiala di zoledronato costa 170 euro a prezzo pieno – si riduce del 44% il rischio di fratture vertebrali incidenti e del 30-40% quello delle altre fratture globalmente considerate”, osserva l’esperto, sottolineando che si sta parlando di prevenzione in persone sane, ma che, come scrivono gli autori dello studio, sono preoccupate riguardo al futuro.
“Ho molte pazienti che mi dicono ‘mia nonna si è rotta il femore, mia mamma ha avuto i crolli vertebrali, hanno sofferto moltissimo, io non voglio fare quella fine’. Mettere il focus sul desiderio della paziente non è sbagliato: noi mettiamo sempre il focus sugli effetti collaterali, con un’enfasi forse eccessiva. Peraltro, nel caso specifico, la diminuzione dei valori di telopeptide C-terminale (CTx) non è drammatica, perciò il timore di complicanze da eccessiva soppressione del turnover osseo non sembra giustificato con una somministrazione programmata di questo tipo” dice Vescini.
Considerato che lo studio dimostra che il rapporto rischio-beneficio del zoledronato nella early menopause è favorevole, l’endocrinologo potrà dunque proporre questo intervento alle sue pazienti? Non nell’immediato. “Una paziente senza osteoporosi non entra nella nota 79 per la prescrivibilità del zoledronato, di conseguenza non ha diritto a ottenerlo dal Sistema Sanitario Nazionale. E se anche volesse pagarlo di tasca sua, non può averlo perché è un farmaco di fascia H”, chiarisce Vescini. Dovranno cambiare le linee guida e il regime di fornitura prima che questo studio si traduca in un cambio di pratica clinica.