Quando alla mafia si risponde con un no si paga con la vita. Lo si sa. E molti sono disposti a venire a patti con la mafia. Ma ci sono persone oneste non disposte a pensare solo a se stesse, persone che la coscienza la possiedono. Quando un no è imposto dalla coscienza allora non ci sono esitazioni. Se si ha una coscienza, ovviamente.
Esitazioni non le ha avute il dottor Paolo Giaccone. Originario di Palermo da una famiglia di medici: il padre, Antonio, era stato primario di ostetricia e ginecologia. E medici erano stati anche il nonno e il bisnonno. Dopo la laurea a pieni voti Paolo Giaccone lavorò in importanti laboratori scientifici a Parigi. Esperto di balistica, ematologia forense, criminologia e tossicologia, gli venne affidata la direzione dell’Istituto di medicina legale del Policlinico di Palermo e per la sua competenza veniva spesso chiamato come consulente in tribunale nei tanti processi di mafia, negli anni settanta e all’inizio degli anni ottanta.
Un giorno il prof. Giaccone viene incaricato di effettuare una perizia su un’impronta digitale trovata in un’auto rinvenuta dopo la strage di mafia, avvenuta nel dicembre 1981, per le strade di Bagheria. Attribuire l’impronta a un nome voleva dire far luce su killer e mandanti e per tale ragione la mafia gli chiese di falsificare i risultati in modo che l’impronta digitale potesse divenire una prova di incriminazione. Al rifiuto opposto dal dottor Giaccone, fecero seguito richieste pressanti, poi intimidazioni, infine la minaccia di morte. Ma il dott. Giaccone intende onorare il giuramento di Ippocrate e il camice che indossa. Non insabbierà nulla, non falsificherà nulla. E così accerta che l’impronta appartiene a Giuseppe Marchese, nipote di Filippo Marchese, boss dei corleonesi. Per il suo rifiuto di scendere a patti con la criminalità mafiosa pagherà il “prezzo” : l’11 agosto 1982, mentre si reca all’istituto di medicina legale, Giaccone viene raggiunto tra i viali alberati da due killer e ucciso con 5 colpi di una pistola Beretta 92 parabellum.
Solo molto tempo dopo l’ assassinio, il pentito Vincenzo Sinagra rivelò i dettagli del delitto, indicando come esecutore materiale il killer Salvatore Rotolo, che perciò venne condannato all’ergastolo nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra, nel quale furono giudicati anche i mandanti dell’omicidio (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Francesco Madonia, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Antonino Geraci), condannati pure alla pena dell’ergastolo. La stessa sorte non è toccata, però, anche all’avvocato che lo minacciò al telefono e di cui, ancora, non si conosce l’identità.
Oggi il Policlinico di Palermo è intitolato a suo nome oltre che una via nello storico parco della Favorita.
Ma la storia non finisce qui. Tutti i processi permafia hanno sempre un lato oscuro destinato a rimanere tale anche quando vengono assicurati alla giustizia i mandanti, condannati i responsabili e gli esecutori. Nelle parole della figlia di Paolo Giaccone, Camilla, anche lei medico legale continua a rimanere vivo il dolore per l’epilogo “secondo copione” della vicenda processuale.
“La causa principale dell’omicidio di mio padre è stata l’impronta digitale di Marchese, ma in realtà loro hanno voluto colpire la sua figura perché era incorruttibile. Con questo non voglio dire che gli altri non lo siano, ma mio padre cominciava anche ad acquisire potere: infatti, aveva appena vinto la seconda cattedra di Medicina Legale e stava aspettando la nomina, che arrivò qualche giorno dopo la sua morte. Qualcuno mi disse pure che lo avevano proposto come Rettore di Unipa, quindi, hanno pensato di fermarlo prima che fosse troppo tardi”. “Inoltre, stava mettendo su il centro di genetica che aveva già ottenuto i finanziamenti, ma quando è morto di questo progetto non se ne fece più nulla. I locali divennero il magazzino della medicina legale e i macchinari andarono all’Avis. In generale, stava creando un laboratorio che dava fastidio in città”.
Parole che illustrano con fermezza lapidaria i retroscena del fatto criminoso, parole che denunciano senza mezzi termini le responsabilità di chi ha il dovere di reprimere i reati: responsabilità politiche e/o istituzionali? La rilevanza penale del “patto di protezione” stipulato con le organizzazioni criminali è un’altra storia, antica e lontana dalla fine.
Questa storia e altre storie sono da me raccontate nel programma Storia&storie in onda sulle frequenze di Radio Regional tutti i martedì alle ore 12,15 (in replica il giovedì alle ore 17.32) al link:https://www.radio-italiane.it/regional-radio e in podcast al link: Storia & Storie:
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