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PERCHE’ IL PIL ITALIANO NON CRESCE

Un problema pluridecennale dell’Italia è che il Prodotto Interno Lordo, in sigla PIL che semplificando è la somma di tutte le spese “registrate” cresce troppo poco rispetto ad altri Stati, traducendosi in uno stato di declino dell’economia.  Il PIL è legato al livello dei consumi e degli investimenti, e che codesti siano legati al livello di fiducia nel futuro è scontato ma sui media  in genere si ha cura di non collegarli  perché a sorgono  domande: “se i consumi e gli investimenti in Italia scendono, è perché  anche la fiducia nel futuro?  E chi ne è responsabile?”.

Giacché ognuna delle possibili soluzioni semplici per ottenere un aumento dei consumi interni

urta contro un vincolo o di riduzione del debito pubblico o di bilancio o politico, il problema di come ottenere un aumento dei consumi può essere tradotto in “come evitare un ulteriore decremento?” e la seconda domanda a questo punto è: “Perché i consumi della maggioranza delle famiglie italiane continuano a  scendere ?”

La risposta, ripetuta su tutti i media, è : perché c’è la crisi, e i redditi sono molto diminuiti rispetto al 2007. Questa non è una risposta, ma una tautologia, perché giustifica la crisi con…la crisi. L’inizio della crisi all’estero è stato nel 2008 (con il fallimento di Lehman Brothers), ma

all’inizio del 2008 la famiglia media italiana destinava al consumo l’ottantotto per cento del reddito, 4 anni dopo (inizio 2012) ne destinava il 92 per cento, ossia più di prima: il calo dei consumi, dunque, è recente.

La minoranza che può permettersi di andare ogni sera al ristorante, magari in un ristorante del Centro, guardando solo alle persone che frequenta sarà onestamente convinto che tutto va bene, che la gente ha soldi da spendere, eccetera. Chi vive con persone povere, che non hanno soldi da sprecare al ristorante, avrà una visione opposta. Le rilevazioni statistiche dovrebbero aiutarci ad avere una visione meno parziale ma è comunque necessario interpretarle, nella media si perdono i dettagli, e a volte sono volutamente elaborate in modo da non creare allarme.

Prendendo pari a 100 i consumi nel 1995, l’indice era di 115 nel 2007, e di 112 nel 2023. Si tratta di un indice medio, in cui confluiscono l’aumento dei consumi delle classi ricche e il calo dei consumi delle classi povere, quindi qui dovremo parlare delle classi povere. Ed eccoci al punto cruciale: che cosa è successo a partire dal 2007? Perché da allora i residenti in Italia  si ostinano a risparmiare sempre di più e a consumare sempre di meno? Perché la più volte annunciata svolta, o luce in fondo al tunnel, o ripresa che staremmo per agganciare, non ha invertito la tendenza a consumare

sempre di meno e a risparmiare sempre di più?  E perché negli ultimi anni anche il risparmio sta calando?

Una  risposta è che  nel 2012 il governo Monti ha iniziato a prendere i provvedimenti di taglio alla spesa pubblica che il governo Berlusconi non volle attuare  per ragioni di gradimento elettorale; il

governo Berlusconi fu “dimissionato” da un “consensus” italo – UE ad alto livello perché era ormai considerato totalmente inaffidabile, poiché continuava a tentennare senza adottare alcun provvedimento contro il rischio di default. Il che era più che comprensibile: quanti voti prenderebbe oggi Forza Italia (che infatti è sopravvissuta) se la legge Fornero che ha allungato a 67 anni e oltre l’età di pensionamento, allungando di circa  dieci anni l’obbligo di vita lavorativa e tagliando

drasticamente le pensioni (questo non si vede molto, ancora) si chiamasse non “legge Fornero”, ma “legge Berlusconi” ?

Questa spiegazione si allinea perfettamente con quanto espresso dalla teoria economica (l’economia in sé è piena di concetti giusti, l’errore è quasi sempre nel volerli applicare ai contesti sbagliato, o peggio volerli applicare in modo interessato) e in particolare dagli studi di Arthur Cecil Pigou, Milton Friedman e Franco Modigliani. Secondo il modello elaborato da questi professori i consumi, oltre che dal livello del reddito corrente, dipendono in modo cruciale anche dalle aspettative di

redditi futuri e dal patrimonio (che una persona con un ricco patrimonio spenda di più quando si aspetta di incassare di più in futuro era  ovvio anche a un bracciante del Salento del XVII

secolo, ed è  incontestabile ancora oggi!).

Uno degli effetti della legge Berlusconi – Fornero (citiamo Silvio Berlusconi perché ne è un “padre genetico”, poiché è stato al governo per gran parte dei vent’anni precedenti, e durante i suoi governi la crescita del debito pubblico è stata ancora più veloce che duranti gli altri) è stato, e sarà sempre più, una riduzione dei  redditi dei più anziani, cioè di tutti noi, perché tutti (salvo eccezioni) diventeremo anziani; e chi si aspetta redditi molto più bassi, come i futuri pensionati, risparmia molto di più, se può.

Se per qualche motivo le aspettative di redditi futuri si deteriorano o il valore del patrimonio si riduce, la gente destinerà al consumo una frazione minore del suo reddito, ossia farà esattamente quel che da qualche anno i poveri  stanno facendo in Italia; e se non economizzano   molto di più è perché credono di prendere pensioni ben più alte, o perché non ci riescono.

Qui non usiamo la definizione di “povero” dell’Istat,  così restrittiva che invece di “poveri” sarebbe meglio parlare di “in miseria nera”; qui definiamo poveri coloro che con il loro reddito non possono  pagarsi  in vecchiaia una RSA dignitosa e le spese mediche necessarie inclusa badanza e altro,  perché queste persone vivranno un vero e proprio dramma. Un dramma di vita  citato sì dai media ma in modo talmente zuccheroso da renderlo impercepibile a chi non ne abbia conoscenza diretta.

Gli italiani, anche se un imprenditore televisivo  notissimo dichiarò che ragionava come se parlasse a degli undicenni, ragionano e hanno diversi motivi (pensioni più lontane, pensioni più basse, peggioramento delle prospettive di reddito da lavoro) per aspettarsi redditi più bassi, e quindi incrementano i risparmi. Se facessero bene i  calcoli e tagliassero i consumi quanto necessario, sicuramente ci sarebbe un  taglio ai consumi drammatico; chi è stato già costretto a farlo lo sa.

Un primo motivo è la cosiddetta Legge Fornero unita a tutto l’insieme di provvedimenti di taglio al potere d’acquisto reale delle pensioni: dover allungare la vita lavorativa rende più insicuri i redditi di dieci anni di vita, e dato che invecchiando le possibilità di guadagno diminuiscono per coloro che sono indifesi di fronte alle tempeste del  settore del lavoro, cioè le classi povere,  e le spese aumentano (anche solo quelle mediche) si cerca di spendere  meno.

Un  secondo motivo è la riduzione della spesa pubblica per ridurre il  debito pubblico: se ogni anno lo Stato spende meno di quanto avrebbe speso prima (quando il debito cresceva molto più velocemente), è evidente che il denaro non speso a qualcuno non arriva, e alla fine dei tanti passaggi ci sono comunque le famiglie.

Ogni spesa pubblica tagliata, ogni pensione ridotta, ogni assunzione non fatta nel settore pubblico, riducono le possibilità di spesa delle famiglie. Non solo: vi è la percezione sempre più forte che tale

andamento negativo sarà a lungo termine. Percezione che è una realtà, perché dei 3.000 miliardi di euro di debito pubblico lo  Stato dovrà rientrare, forse  in 30-60 anni; e quindi le famiglie, chi più chi meno velocemente, stanno adeguando le proprie aspettative e quindi riducono i consumi;  la riduzione è persino troppo lenta rispetto al necessario ma a nessuno piace vivere peggio e l’adattamento è lento.

L’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge Renzi anglesizzata in “jobs act”) e l’ideologia che le sta dietro sono state  una ulteriore “picconata” al senso di sicurezza delle famiglie.

Il terzo motivo è complesso, legato agli effetti  della scelta xenofila “chiunque voglia entrare può entrare e  restare”   sull’ingresso degli stranieri in Italia: gli italiani d’origine non hanno fiducia in questa classe dirigente e basano questa ragionata sfiducia proprio sui provvedimenti che hanno visto prendere e  quelli che hanno visto non prendere, in questi ultimi quaranta anni, riguardo agli immigrati. Anche il fatto che si tratti spesso di obblighi derivati da leggi UE nulla cambia. Per le classi a basso reddito degli italiani di origine in non -italiani di origine  sono competitori in tutti i campi: sul lavoro, nelle piccole imprese, nell’uso del zolfare.

La fetta di popolazione residente in Italia non di origine italiana è conseguenza di quella che è chiamata oggi immigrazione, ieri ingressi illegali, forse un domani invasione fredda; che ha comportato una percentuale di non – italiani di origine  ormai superiore  al 50% in alcune zone, percentuale ovunque in crescita. Queste persone sono in competizione con le persone di origine italiana povere, mentre non  lo sono con  le classi ricche.  Quel che gli italiani d’origine e  a basso reddito vedono è un continuo afflusso, non ostacolato e anzi favorito  (di fatto e di diritto), di non italiani d’origine; ne subiscono da decenni le conseguenze, tanto più quanto più sono poveri, e avendo gli italiani d’origine buona memoria generazionale su cosa comportano i competitori a basso costo, hanno  aspettative sempre peggiori.  Aspettative che sono rese ancora più pessimistiche dalle continue proclamazioni, sull’essere causa della recessione il mercato del lavoro “troppo ingessato”; perché le persone non riescono a concepire come possa essere più libero di come è, con  effetti già drammatici sulle scelte dei giovani.

Le classi povere  capiscono che “flessibilità” nella loro realtà implicherà solo ulteriori peggioramenti di reddito e sicurezza, sia per loro che per i familiari che magari hanno un posto di lavora migliore e un po’ stabile;  sono schiacciati tra datori di lavoro sempre più esigenti (si è arrivati a ipotizzare di ridurre i giorni di festa, di riposo e di ferie) e competitori vincenti  sul lavoro, dati i rapporti di cambio delle valute straniere con l’euro e la cultura di origine diversa; quindi si preoccupano sempre di più, la fiducia nel futuro scende, e riducono sempre di più le spese.

Inoltre  la classe dirigente di origine italiana dal governo Monti in poi ha agito, agisce e comunica in un modo che sta  erodendo e riducendo continuamente il livello di fiducia di molte classi sociali e di conseguenza i consumi si riducono.

Nessuna scelta politica semplice (o semplicistica, o sempliciotta) riuscirà a rilanciare la domanda interna, fino a che  tutte le scelte di politica economica fatte finora e quelle ragionevolmente prevedibili, comporteranno che per la gente (sicuramente per l’etnia italiana povera, e anche per una quota di stranieri) le cose in futuro andranno peggio, i redditi (da lavoro o da pensione) saranno sempre minori, le sicurezze saranno sempre minori, e la conflittualità sociale con i competitori stranieri entrati in Italia sempre maggiore.

I possessori di piccoli patrimoni, di patrimoni  microscopici, che non possono permettersi il minimo inciampo pena la miseria, percepiscono che sono i “loro” patrimoni sotto attacco, e in riduzione, e quindi risparmiano più che possono. E ogni comunicazione sulle scelte di politica economica rafforza sempre più queste valutazioni; anche gli imprenditori, quelli piccoli, vivono in questa situazione, e assumono nel modo più flessibile possibile; e  lo faranno finché le retribuzioni non saranno così basse e il lavoro così deregolamentato da eliminare sia qualunque differenziale competitivo con gli stranieri, sia qualunque rischio; questo avverrà a livelli di retribuzioni così bassi da innescare una catastrofe sociale paragonabile a quella dell’Unione Sovietica dopo il crollo o a quella dei paesi del Sud America dove furono applicate le ricette del Fondo Monetario Internazionale.

Ma questa percezione negativa come si è consolidata? La casa è per gli italiani, da un secolo, il bene “solido” per eccellenza. I possessori di piccoli patrimoni  (inclusi  tutti gli italiani che sono proprietari della casa in cui abitano) hanno cominciato a ridurre la propensione al consumo anche da quando, nel corso del 2012, si sono resi conto che una delle scelte del governo Monti era l’inasprimento della tassazione sulla piccola proprietà immobiliare (la casa, o la seconda

casa dei nonni, o la seconda casa comprata per investire per i figli). S’intende qui la tassazione “reale”, perché anche far emergere gli “affitti in nero”, si traduce in un aumento di tassazione

pesante, se quell’affitto è l’unico reddito di una vedova, che vive con una pensione molto bassa (quasi tutte).

Se il reddito della casa non è più una sicurezza, allora il prezzo della casa diventa legato a quanto può rendere ma, se gli affitti sono tassati, realmente rende meno e se le imposte sulla casa crescono, le case rendono meno, e se le rendite catastali vengono rivalutate le case rendono ancora meno.

Non si vende ancora la casa perché c’è un’imposta di registro del 10%, che per un povero sono anni e anni di risparmi, ma neanche si compra; e intanto si risparmia; così, per la prima volta da un secolo, il prezzo delle case non è aumentato in misura tale da compensare l’inflazione; ma il patrimonio casa era la “riserva di valore” che poteva essere liquidata in caso di necessità, e quindi le scelte del governo Monti (esecutore di quanto avrebbe dovuto fare il governo Berlusconi; in questo Monti è stato un vero manager, attuando ciò che chi lo assume vuole che attui, cioè tagliare la spesa pubblica per non aumentare il prelievo fiscale sui redditi alti) hanno ridotto anche il patrimonio di riserva, e se le riserve si riducono…si risparmia. O almeno risparmiano i milioni in queste condizioni, e quindi se altri non consumano per compensare  la media scende.

E se la spesa media scende in termini reali l’unica crescita la danno le esportazioni, ma senza barriere doganali le esportazioni oggi sono insufficienti, e quindi la crescita non c’è.

Data:

16 Novembre 2024

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