Previdenza, “illegittimo trattamento fiscale diverso tra pubblico e privato”
È illegittimo il diverso trattamento tributario – tra dipendenti pubblici e privati – previsto per il riscatto di una posizione individuale maturata tra il 2007 e il 2017 nei fondi pensione negoziali. La previsione penalizza i dipendenti pubblici rispetto a quelli privati sebbene le due fattispecie siano sostanzialmente omogenee. Si tratta quindi di una discriminazione che viola il principio dell’eguaglianza tributaria. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza depositata n. 218 (relatore Luca Antonini) affermando che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati.
La questione era stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, alla quale si era rivolta un’insegnante per ottenere il rimborso – negatole dall’Agenzia delle Entrate sulla base della disposizione censurata – delle maggiori imposte pagate sull’importo riscattato dal Fondo pensione Espero. Su questo reddito ora si dovrà applicare la più favorevole imposta sostitutiva introdotta dal 2007 anziché l’aliquota determinata sommando l’importo stesso al reddito complessivo dell’anno.
La Corte ha fatto leva sull’omogeneità del meccanismo di finanziamento della previdenza complementare, sia nei fondi pensione negoziali dei dipendenti privati sia in quelli dei dipendenti pubblici, per concludere che la duplicità del trattamento tributario del riscatto della posizione maturata non può essere giustificata né dalla diversa natura del rapporto di lavoro, né dal fatto che l’accantonamento del Tfr dei dipendenti pubblici è virtuale, in costanza di rapporto di lavoro. Ha quindi esteso anche ai dipendenti pubblici l’agevolazione già prevista per quelli privati con lo scopo di favorire lo sviluppo della previdenza complementare.
Alitalia, non solo salvataggio: Atlantia punta a rilancio
Un piano che punta al rilancio e non solo al salvataggio di Alitalia. Sarebbe questo uno dei punti chiave messi in chiaro oggi da Atlantia nel corso dell’incontro che si è svolto questa mattina tra i potenziali partner della newco. Secondo quanto s’apprende, infatti, i dirigenti del gruppo infrastrutturale avrebbero ribadito la propria disponibilità a lavorare a un piano industriale che serva a rilanciare la compagnia di bandiera, segnalando tuttavia le diverse problematiche dell’attuale piano che, invece, punterebbe soltanto a un salvataggio. Il piano attuale, in particolare, impegnerebbe cassa per 4 anni, al termine dei quali non sarebbe chiaro come arrivare a un riequilibrio dei costi e al raggiungimento del break-even.
Ci sarebbe poi il nodo di Delta. L’altro ostacolo ancora non sciolto sarebbe l’indisponibilità dell’aviolinea Usa a modificare gli accordi di volo sulle rotte nord-atlantiche, che sarebbero fortemente penalizzanti per la compagnia di bandiera. I componenti del tavolo elaboreranno nelle prossime ore una short list di temi ancora aperti e di problematiche da sciogliere e la invieranno al Mise nei prossimi giorni. Le problematiche, discusse al tavolo oggi dall’ad di Fs Gianfranco Battisti, il direttore generale di Atlantia Giancarlo Guenzi, i commissari della compagnia Laghi e Discepolo e i rappresentanti di Mise e Mef, sono state indicate da Atlantia nella lettera inviata nella serata di ieri al Mise. Una lettera, dunque, che ha consentito di far emergere i diversi punti ancora non sciolti della trattativa in corso per il salvataggio e il rilancio di Alitalia.
“GOVERNO IRRITATO” – Governo “irritato” per la posizione espressa da Atlantia sul dossier Alitalia. E’ quanto è emerso, secondo quanto s’apprende da fonti dell’esecutivo, nel vertice che si è svolto questa sera a Palazzo Chigi con il premier Giuseppe Conte e i ministri interessati. Il gruppo infrastrutturale avrebbe chiesto di modificare il piano e che si intervenga su Delta perché il suo sia un intervento più incisivo, oltre ad avere una parola chiara sulla questione di Autostrade per l’Italia. Non ci sarebbe stata, a quanto apprende l’Adnkronos, una richiesta formale di revoca anche se, dovendo rimettere mano al piano, questa potrebbe venire da sé.
Come riferisce una fonte di governo, il motivo di irritazione è legato in particolare alla questione Aspi e al fatto che “Atlantia e i Benetton non si assumono le responsabilità”. “Pensano che basta togliere dopo un anno Castellucci”, sottolinea la stessa fonte.
Di Pietro: “Salvo Lima incassò tangente Enimont attraverso Cirino Pomicino”
“Anche Salvo Lima incassò una tangente Enimont da Raul Gardini, attraverso i Cct che gli girò Cirino Pomicino”. A rivelarlo in aula, al processo d’appello sulla trattativa tra Stato e mafia è l’ex pm Antonio Di Pietro, sentito come teste dalla difesa del generale Mario Mori. Di Pietro parlando dell’inchiesta Tangentopoli nel 1992 ha riferito dei “collegamenti tra affari e politica” e ha ribadito che “i soldi di Gardini finirono anche a Salvo Lima”. All’epoca Di Pietro aveva avuto anche dei rapporti di collaborazione con i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. “Il primo che mi disse ’dobbiamo fare presto, dobbiamo chiudere il cerchio’ fu Paolo Borsellino”, racconta Di Pietro.
“L’elemento predominante del collegamento Nord-Sud o affari e mafia, l’ho avuto quando ho avuto il riscontro della destinazione della tangente Enimont da 150 miliardi di lire – dice Di Pietro – e il mio impegno allora era di trovare chi erano i destinatari, perché avevamo trovato la gallina dalle uova d’oro, la cosa che avevamo davanti era la necessitò di trovare i destinatari”. E spiega: “L’ultimo destinatario fu proprio Salvo Lima che però incassò attraverso Cct. Non potemmo sapere molto perché nel marzo 1992 Lima venne ucciso a Palermo e Gardini si uccise”. “Ma si trattava di vedere chi quella parte di tangente di provvista di 150 miliardi di lire li aveva incassati e abbiamo trovato che 5,2 miliardi li aveva incassati Cirino Pomicino, e fu Cirino Pomicino che diede i cct a Salvo Lima”.
“Nel 1992, da febbraio a maggio e fino all’omicidio Di Falcone, l’inchiesta ’Mani pulite’ si allargò e assunse una rilevanza nazionale – dice ancora Antonio Di Pietro nel corso della deposizione rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio -. Io mi confrontai con Giovanni Falcone che mi disse che le rogatorie erano l’unico strumento per individuare le provviste e mi accennò che da lì si arrivava anche in Sicilia. Ecco perché bisognava controllare gli appalti anche in Sicilia”. Di Pietro parlò anche con Paolo Borsellino “degli stessi argomenti”. “Man mano che si sviluppava l’indagine era più opportuno andare a cercare dove si formava la provvista”.
Il suicidio di Raul Gardini, rivela ancora Di Pietro “è il dramma che mi porto dentro…”. Nel luglio del 1993 “l’avvocato di Raul Gardini, che all’epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell’interrogatorio l’imprenditore Gardini tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l’arresto. E io dissi di aspettare”, racconta Di Pietro. Ma la mattina dopo l’imprenditore si uccise con un colpo di pistola. “E’ il dramma che mi porto dentro…”, dice Di Pietro con un filo di voce. Per poi aggiungere: “Ma questo che c’azzecca con la trattativa?…”.
Poi la denuncia dell’ex pm: “L’inchiesta ’Mani pulite’ è stata fermata quando è arrivata allo stesso punto del rapporto tra mafia e appalti. Sono stato fermato da una delegittimazione gravissima portata avanti in modo abnorme”.
“Nei miei confronti sono stati svolti una serie di dossieraggi portati avanti da personaggi su ordine di alcuni politici che hanno portato alle mie dimissioni – dice Di Pietro rispondendo alle domande dell’avvocato Basilio Milio – Da lì a poco sarebbe arrivata non solo una grossa indagine nei miei confronti ma anche una richiesta di arresti e io mi dimisi per potermi difendere. Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm”.
“Sono convinto che Paolo Borsellino – ha continuato quindi Di Pietro – fu ucciso perché indagava sulle commistioni tra la mafia e la gestione degli appalti. L’indagine mafia-appalti fu fermata. Come accadde con Mani pulite”.
Fermo, semina panico in strada con machete
Ha seminato il panico in strada, sulla rotatoria di San Francesco, a Fermo, con un machete in pugno. Un nigeriano di 38 anni è stato portato in Questura dopo una breve ricerca effettuata dai poliziotti, chiamati da numerosi automobilisti che l’extracomunitario ha tentato di aggredire senza un apparente motivo.