Questa settimana proponiamo Giorgio Caproni (1912 – 1990), e la sua celeberrima Alba, dedicata alla moglie Rina. Caproni, poeta, traduttore, critico letterario, fu anche ottimo violinista, e se non intraprese la carriera musicale questo fu dovuto più all’emotività dell’esordio come violino di fila piuttosto che alla mancanza di talento. Terminato il magistero si dedicò all’insegnamento alle scuole elementari, Il 29 aprile 1941 il fante Caproni Giorgio scriveva: «Non addolorarti, Rinuccia mia. Verrà pure il tempo in cui avremo la grazia di ritrovarci riuniti per sempre. Basta avere fiducia in Dio e pregare, lo fai? Ne ho bisogno, Rinuccia. Io prego ogni sera per te». In Caproni, memorie e sentimenti non sono mai semplici e, soprattutto nelle poesie più antiche, si mescola a Rina il ricordo della prima fidanzata del poeta, Olga Franzoni, morta drammaticamente di setticemia nel 1936. Occorre tuttavia sottolineare che tematica ricorrente in Caproni è la presenza/assenza di Dio, e che le domande/risposte sulla metafisica sono interrogativi autentici e non semplici espedienti letterari.
Alba è una poesia del 1956. “nei vapori di un bar” è immagine di raro nitore e raffinatezza espressiva. Il tempo è sospeso nel gelo (altra tematica ricorrente in Caproni), il senso della fine incombente: ma il brivido dell’inverno è al tempo stesso il brivido dell’attesa: cambia solo la temperatura. Notiamo l’aggettivo “ermo” (solitario, deserto: come non ricordare l’ermo colle di Leopardi?). Un’espressione così antica e inaspettata per descrivere il rumore di un tram è un’altra grande invenzione con cui Caproni sembra invitarci a osservare la realtà prima di interpretarla: il poeta non è un modello, non è un filosofo, ma un essere che trema nel gelo per l’attesa dell’amata (o della morte). Si mette a nudo. Cerca un pertugio tra le nebbie. Nel tempo dilatato dell’attesa.
ALBA
Amore mio, nei vapori di un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte,
qui, col tuo passo, già attendo la morte.