“I premi letterari fanno più male che bene, tanto a chi li riceve quanto a chi ne viene privato.” (Raoul Precht). Fu così anche per Salvatore Quasimodo (1901 – 1968, Premio Nobel 1959), la cui avversione nei suoi confronti superò di gran lunga i demeriti. Il suo percorso poetico parte da echi dannunziani e pascoliani, attraversa gli ermetici e i neorealisti e si allinea infine alle correnti letterarie allora egemoni “restando a metà fra solennità insistita e immagine preziosa, ma meramente decorativa” (G. Barberi Squarotti, il cui parere è per noi dirimente). Ma un conto è esercitare una critica – che può anche diventare stroncatura – un altro conto è il livore, l’antipatia, l’ingenerosità spocchiosa o l’invidia. Mal si sopportava che Quasimodo, un semplice geometra, avesse successo di pubblico.
Ungaretti e Montale, a lui indiscutibilmente superiori, non fecero complimenti, e d’altronde la rivalità era antica: “un clown capace solo d’imitazioni ed esercizi di retorica”; “c’è un modo e un quasi-modo di far poesia” (straordinaria questa ironia!). D’altronde Quasimodo ribatteva: “Ungaretti non è che un pazzo, figura secondaria nella nostra poesia” (su questo punto non possiamo che dissentire!) Come fiorettisti niente male! Sino a giungere al più classico dei paradossi italiani: la critica di sinistra lo difende, De Robertis lo stronca. D’altronde Quasimodo, che sin dal 1926 strinse amicizia con due colleghi del Genio Civile, i fratelli Misefari, uno comunista l’altro anarchico, pur non partecipando attivamente alla resistenza, a partire dal 1946 si iscrisse al PCI. Comunque l’onesto Carlo Bo lo stima, anche perché le traduzioni di Quasimodo dei classici greci sono, secondo molti, di altissimo valore.
La poesia che proponiamo questa settimana è inserita nella raccolta “Ed è subito sera”; I morti è un componimento in novenari, calibratissimo, di ascendenze pascoliane. In particolare al verso 7 si noti il lemma “bevevano” (sdrucciolo, dopo l’accento sulla “e” ci sono altre due sillabe). Questa ipermetria è compensata al verso 8, che ha otto sillabe anziché nove; il verso 6 è invece un doppio senario: il ritmo si fa incalzante quanto più il panorama desolato della natura è imprigionato nella morte. Vale la pena rileggerlo? Certo che sì, considerato lo scenario futuro. Futuro di allora, presente di oggi.
I morti
Mi parve s’aprissero voci,
che labbra cercassero acque,
che mani s’alzassero a cieli.
Che cieli! Più bianchi dei monti
che sempre mi destano piano;
i piedi hanno scalzi, non vanno lontano.
Gazzelle alle fonti bevevano,
vento a frugare ginepri
e rami ad alzare le stelle?