Per la prima volta nella storia della Repubblica, il prossimo 17 aprile gli elettori italiani saranno chiamati a votare a un referendum richiesto dalle regioni – Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise – invece che tramite una raccolta di firme. Si tratta del cosiddetto referendum “No-Triv”: una consultazione per decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio per i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa italiana. L’esito del referendum sarà valido solo se andranno a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto.
La domanda che si troverà stampata sulle schede è “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?” Chi vuole eliminare le trivelle dai mari italiani deve votare Sì, chi vuole che le trivelle restino senza una scadenza deve votare No. I due schieramenti sono rappresentate da comitati. Da una parte c’è il Comitato “Vota sì per fermare le trivelle”, a cui hanno aderito oltre 160 associazioni (dall’Arci alla Fiom, da quasi tutte le associazioni ambientaliste a quelle dei consumatori, dal Touring Club all’alleanza cooperative della pesca). Dall’altra, un gruppo che si definisce “Ottimisti e razionali” e comprende nuclearisti convinti come Gianfranco Borghini (presidente del comitato) e Chicco Testa.
Gran parte delle 66 concessioni estrattive marine che ci sono oggi in Italia si trovano oltre le 12 miglia marine, che non sono coinvolte dal referendum. Il referendum riguarda soltanto 21concessioni che invece si trovano entro questo limite: una in Veneto, due in Emilia-Romagna, uno nelle Marche, tre in Puglia, cinque in Calabria, due in Basilicata e sette in Sicilia. Le prime concessioni che scadranno sono quelle degli impianti più vecchi, costruiti negli anni Settanta. Le leggi prevedono che le concessioni abbiano una durata iniziale di trent’anni, prorogabile una prima volta per altri dieci, una seconda volta per cinque e una terza volta per altri cinque; al termine della concessione, le aziende possono chiedere di prorogare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.
Se vincerà il Sì, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, dove si prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. La vittoria del sì bloccherà tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana, quando scadranno i contratti. Non saranno interessate dal referendum tutte le 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre petrolio o metano. Secondo i comitati a favore del Sì, appoggiati dalle nove regioni che hanno promosso il referendum e da diverse associazioni ambientaliste come il WWF e Greenpeace, le trivellazioni andrebbero fermate per evitare rischi ambientali e sanitari. I comitati per il Sì ammettono che per una serie di ragioni tecniche è impossibile che in Italia si verifichi un disastro come quello avvenuto nell’estate del 2010 nel Golfo del Messico, quando una piattaforma esplose liberando nell’oceano 780 milioni di litri di greggio, ma sostengono che un disastro ambientale in caso di gravi malfunzionamenti di uno degli impianti sia comunque possibile.
Le ragioni del No sono varie. Si va dall’inutilità della chiusura di un pozzo già montato con costi per smontare e altri per ricostruire a un necessario aumento della spesa per acquistare all’estero quanto non si estrarrebbe più in Italia. Ci sono poi i timori per la perdita di posti di lavoro che comporterebbe la chiusura degli impianti, 3000 solo a Ravenna secondo le stime del Comune, e la mancanza di effettivi dati sull’inquinamento provocato dalle trivellazioni.
E’, ovviamente, aperta battaglia tra i due schieramenti. Mentre continua la mobilitazione di Greenpeace a favore del sì. i cui attivisti nelle scorse settimane hanno occupato le principali piazze di 23 città italiane per sottolineare la propria opposizione alle trivelle sul territorio italiano, a muoversi è anche il fronte opposto, presieduto dall’ex Pci e presidente della Gepi (la Società per le gestioni e partecipazioni industriali)Gianfranco Borghini, secondo cui il settore degli idrocarburi potrebbe, a dispetto di quanto affermato dai promotori del referendum, essere fonte di opportunità di investimento e ricerca e portare vantaggi in termini occupazionali ed economici.