Gli accordi sottoscritti dai vari Governi italiani, riassunti semplicisticamente con “ce lo impone la UE”, vincolano le scelte di politica economica del Governo attuale. Si dimentica, o si vuole dimenticare, che l’adesione all’euro fu voluta dai politici allora al governo (Romano Prodi incluso) anche nella convinzione che un “vincolo esterno” avrebbe spinto i politici al governo ad auto costringersi a comportamenti di bilancio rigorosi. Ciò non è stato, e il rispetto dei vincoli di bilancio ci è stato alla fine imposto dai Paesi “forti” dell’area euro. Alcuni di questi paesi hanno un sistema di sicurezza sociale più efficiente del nostro, quindi l’accusare il welfare italiano è un argomento pretestuoso.
Come agire, allora? Perché i patti UE? Perché in una area con una moneta unica i singoli Stati perdono la libertà individuale di battere moneta, creare inflazione, svalutare e persino arrivare all’insolvenza. La barca dell’euro è unica, e se uno dei partecipanti (più grande è peggio è, e l’Italia è grande) si muove troppo la barca oscilla per tutti; quindi i paesi con una economia forte, e la Germania è ancora la più forte, vogliono che la barca euro non oscilli anche per poter continuare ad esportare grazie a un euro molto più debole di quel che sarebbe oggi il marco. Viceversa l’Italia è inchiodata a un euro che vale oggi molto di più di quel che varrebbe la lira, e la classe dirigente deve rinunciare a due suoi vizi capitali: finanziare la spesa pubblica aumentando il debito pubblico per non aumentare la pressione fiscale, svalutare la moneta compensando così la debolezza competitiva delle aziende italiane causata dal “sistema Italia”.
Prima della perdita di indipendenza nella gestione della moneta, il debito pubblico si svalutava man mano che si svalutava la lira, adesso è diventato un debito “vero” che non si svaluta, pesa per circa 3.000 miliardi e continua a crescere in termini reali. La “flessibilità” delle regole della Commissione Europea, non mette assolutamente in discussione il vincolo che il debito pubblico debba essere ridotto, ma consente solo di variare, molto leggermente, solo i modi e i tempi.
Il “come” ridurre il debito non ce lo impone la UE ma è un problema esclusivo del governo italiano. Governo che ne ha, come ha sempre avuto, i mezzi e il potere senza che ciò richieda riforme costituzionali, ma è la questione del “come” che fa tremare la classe dirigente, poiché qualunque scelta è squisitamente politica, né può essere neutrale, come non lo sono stati i provvedimenti del governo Monti. Che l’Italia riduca il debito aumentando le imposte e/o sfruttando la crescita, non dipende dalle regole della BCE, né dalla flessibilità concessa nel rientro, ma solo dal governo italiano. Così come la competitività dell’economia italiana dipende dalle azioni del governo italiano, che purtroppo è vincolato anche da normative UE concepite per altre economie, per altri momenti storici, e per altre situazioni geografiche. Ovviamente la competitività dipende anche dal comportamento dei residenti in Italia, ma il popolo che ha realizzato il “boom economico” degli anni ’60 del XX secolo è cambiato troppo radicalmente per potersi ripetere, e anche la classe dirigente ha subìto una mutazione genetica.
Che ci piaccia o no, lo stato italiano ha deciso di finanziare parte del debito pubblico sui mercati finanziari internazionali (a suo tempo sui giornali si leggevano espressioni di orgoglio dei semplici, e messaggi di preoccupazione dei competenti che avvertivano del pericolo. Furono ignorati.) ed è quindi obbligato ad ascoltare il suo Creditore. Creditore con la “C” maiuscola, perché comprende tutti coloro che acquistano i titoli di debito italiani. Creditore che potrebbe non finanziare il rinnovo del debito se percepisse la possibilità di una insolvenza; o potrebbe chiedere interessi altissimi, tali da innescare una spirale di crescita del debito pubblico catastrofica.
Qualunque creditore, per continuare a rifinanziare il suo debitore, esige che egli abbia una situazione finanziaria stabile, cioè che possa ripagare gli interessi e che offra la certezza di poter ripagare il debito. Quando il debitore è uno Stato come l’Italia il Creditore, per finanziare il debito pubblico italiano (e qualunque altro debito) amplia l’insieme dei requisiti, ed esige una economia “stabile”. Per “stabile” il Creditore internazionale intende una economia con un PIL crescente (più è meglio è, ma il 2% è considerato il minimo), un rapporto debito/PIL accettabile (tale da garantire la possibilità di rimborsare il debito, soglia oggi fissata al 60%), e con una crescita “reale” non basata sulle “bolle finanziarie” come quella di internet o degli immobili USA degli ultimi 20 anni. Che tutti questi parametri siano discutibili, persino mal definiti, addirittura dannosi a lunga scadenza per il Paese che li persegue acriticamente, e che spesso sia il Creditore a innescare fenomeni di instabilità può accadere: ma finché il Creditore può causare un disastro il Paese debitore deve ballare alla sua musica. Salvo, appena liberato del capestro, ridurre il Creditore in condizioni di impotenza, ma finché gran parte del debito pubblico italiano sarà finanziato dall’estero questo è un sogno.
Ogni Stato ha dei mezzi che il normale debitore non ha, come ad esempio il monopolio dei polizia, giustizia e forze armate, ma se e come usarli è una scelta del Governo. E’ chiaro che qualunque ipotesi di riduzione sostanziale della pressione fiscale per un tempo prolungato è puro e semplice inchiostro sprecato: l’introito fiscale totale (vale a dire quanto lo Stato, in tutte le sue branche, incassa da tutte le possibili fonti) è data da “quanto” deve variare il debito pubblico. Se l’economia cresce il gettito fiscale aumenta, e se si decide di far aumentare il debito pubblico questo consente di ridurre la pressione fiscale. Se invece si decide di ridurre il debito pubblico, o anche solo non farlo ulteriormente aumentare in numerario, il carico fiscale necessario è conseguente. L’attuale quasi – recessione italiana è stata generata anche dal “freno” alla crescita del debito, che ha comportato il dover reperire risorse finanziarie (prima a debito) dal carico fiscale, il che ha generato recessione; esattamente come l’aumento del debito pubblico nel breve periodo genera crescita. Questo è la famosa “teoria del moltiplicatore ” di Keynes, e tutte le ipotesi che prevedono di “liberare” punti di PIL per favorire il rilancio dell’economia di fatto chiedono una “marcia” indietro alle scelte di questi anni.
Una prima ipotesi per creare la crescita desiderata è il ridurre la spesa pubblica, si dice per “liberare i consumi”; un affermazione ridicola, perché lo Stato “consuma” il 100% di quel che incassa, e ridurre la spesa pubblica significa in realtà “ridurre” i consumi poiché parte di ciò che non viene incamerato dallo Stato va in risparmio.
Il “patto di stabilità” pone vincoli alla crescita del debito pubblico, ma le scelte di politica economica entro questi vincoli sono di competenza esclusiva del Governo italiano. Si tratta di scelte politiche, temute e odiatissime dai politici italiani. “Scelta” indica una valutazione seguita da una azione chiara, o di qua o di là, e gli elettori valutano; “politica” indica l’esistenza di una visione del mondo come dovrebbe essere, e gli elettori valutano. Se siamo arrivati a questo punto, con circa 3.000 miliardi di euro di debito, è perché la classe dirigente italiana ha deciso che sarebbe stato conveniente per la sua sopravvivenza distribuire denaro preso “a debito”, che sarebbe stato “forse” ripagato quando le condizioni politiche lo avessero permesso (vale a dire quando la classe dirigente non avrebbe rischiato di essere estromessa). Non si può negare che il governo Monti abbia “scelto” di aumentare la pressione fiscale, né si può negare che fosse presente una visione “politica” in “come” questa scelta sia stata attuata: la legge Fornero ha radicalmente mutato la vita di decine di milioni di persone, delle classi povere, indirizzando l’economia italiana verso un tipo di società neoliberista. Purtroppo le definizioni, anche le più precise, vanno poi tradotte nella realtà: una definizione simpatica riduce il liberalismo a “libera volpe in libero pollaio”; fortunatamente in Italia esiste ancora qualche cane che difende le galline, ma le galline agitate e impaurite non fanno uova, e pretendere che i consumi interni ripartano quando aumenta l’insicurezza sociale (reale e percepita) perché aumenta la disoccupazione, si tolgono tutele al lavoro, si dà libertà di licenziare, si minacciano massicci licenziamenti persino nel pubblico impiego…riflette solo l’insipienza di chi lo pretende.
Una seconda fonte di crescita potrebbero essere le esportazioni, se la classe politica agisse effettivamente per difendere la piccola impresa, ostacolare le imprese estere, facilitare i finanziamenti alla ricerca, semplificare le attività delle organizzazioni cessando di scaricare obblighi (costosi) sulle imprese oneste, e lasciando invece vivere tranquillamente quelle disoneste. I governi italiani hanno concesso totale e incontrollata libertà di ingresso e attività economica a stranieri cittadini di Stati che invece regolano minutamente tale attività; lo Stato italiano si preoccupa persino di finanziare attività economiche create da stranieri, e di non porre barriere alle importazioni di merci da Paesi esteri.
Tali scelte non sono svolte in condizione di reciprocità, e sono anch’esse responsabili della recessione italiana e della mancanza diffusa di fiducia degli italiani nel futuro.
Una terza fonte di crescita è il ridurre il flusso di valuta verso l’estero. Che sia dovuto a rimesse personali di singoli cittadini stranieri che lavorano in Italia (spesso in maniera illegale), che a imprese operanti in Italia, che a italiani che accantonano fondi all’estero, siamo in presenza di mille piccole perdite la cui somma è un gigantesco fiume di valuta che esce dall’Italia, e certamente non va tutto nell’area euro. Un Paese come l’Italia non può permettersi di finanziare imprese gestite da stranieri né di lascia liberamente fluire le rimesse verso il paese di provenienza. Evidentemente il Legislatore italiano ha ancora molto da imparare.
La quasi recessione italiana dura da troppo, e senza azioni positive rischia di diventare nell’ipotesi migliore una realtà permanente fino a che il debito pubblico non scenda. Eppure tutti i provvedimenti dei vari Governi si muovono solo verso una riduzione della sicurezza sociale e un aumento delle complicazioni amministrative (come l’obbligo del POS, un ulteriore costo per i commercianti). Entrambi fattori che scoraggiano le attività economiche. La recessione costringe a ridurre ancora più velocemente il debito pubblico, con ulteriore aumento della pressione fiscale totale, che scoraggia ulteriormente le attività economiche. Le famiglie italiane hanno già giudicato le scelte di questi governi, prova lo sia la crescita esponenziale degli istituti alberghieri, segno che le famiglie hanno valutato che l’unico settore dell’economia che crescerà, o che non diminuirà, sarà quello turistico.
Anche la leva dello sviluppo del debito privato, che in altre economie come quella USA ha dovuto essere frenata, in Italia è rotta: con la prospettiva di una recessione, disoccupazione in tarda età senza pensione, figli disoccupati o sottoccupati (la flessibilità è totale da anni, e ciò non ha creato un solo nuovo posto di lavoro, anzi), tasse sugli immobili in crescita, la propensione italica al risparmio continua a salire, e quella a indebitarsi a scendere. Il “posto fisso” invita a contrarre mutui, il posto insicuro a non contrarli. Henry Ford diceva: “Pago bene i miei operai così possono comprare le mie macchine”, ma evidentemente questa lezione è stata dimenticata.
La classe dirigente italiana ha agito (c’è stata ovviamente una opposizione, ma è stata battuta) in modo coerente, continuo e determinato per creare una situazione di recessione, di insicurezza sociale e di decrescita, limitandosi a una gestione “contabile” del debito pubblico. Nel momento favorevole del ciclo economico ha incassato dividendi ulteriori lasciando crescere il debito pubblico, quando invece avrebbe dovuto ridurlo.
Ha dilapidato i ricchi flussi di contributi dei futuri pensionati distribuendo pensioni a pioggia, dimenticando volutamente che decenni dopo sarebbero arrivate le pensioni da pagare, e ciò che lo Stato aveva prelevato (tramite minore pressione fiscale sui redditi) doveva restituire (anche tramite maggiore pressione fiscale sui redditi).
La crisi che morde l’Italia dal 2007 non è dovuta alla crisi USA: ha ragione sue proprie, una delle quali è il livello di indebitamento pubblico, e le politiche di “risanamento” ingiuste, squilibrate e inefficaci. Questa crisi non è straordinaria, né imprevista. Perché vi sia una crescita adeguata occorre attivare meccanismi di semplificazione burocratica per le piccole imprese, di tutela delle imprese oneste, e di rafforzamento della sicurezza sociale, in modo da innescare un aumento di fiducia che attivi i consumi interni e gli investimenti privati.
Dando per scontato che la pressione fiscale totale non può diminuire, pena la crescita del debito pubblico, la leva di azione dovrebbe puntare a modificare “come ” questa pressione sia distribuita su popolazione e imprese, rivoluzionando i modi di prelievo fiscale. E’ assurda la ritenuta alla fonte del 26% sui redditi finanziari, per cui il pensionato sociale con un po’ di risparmi paga la stessa aliquota del plurimiliardario: le rendite finanziarie debbono poter essere inserite nella dichiarazione dei redditi. Non sono stati sufficientemente toccati i consumi di lusso, specie se di importazione: una imposta d’acquisto del 200% sui gadget elettronici sopra i 50 euro non danneggerebbe alcuna impresa italiana, rallenterebbe solo il ricambio, ma è utopia. I provvedimenti possibili per distribuire diversamente la pressione fiscale sono numerosissimi, rifugiarsi negli automatismi che coinvolgono sempre le classi a minor reddito è certamente semplice, ma devastante.
Il settore degli intermediari finanziari continua a sfuggire ad ogni ristrutturazione, e in Italia ottenere credito è possibile solo quando in realtà non è necessario; contemporaneamente ogni provvedimento governativo aggrava i costi di gestione finanziaria di famiglie e imprese, e incrementa il tempo da destinare alla gestione degli obblighi amministrativi. La stessa amministrazione digitale in molti casi impone ulteriori obblighi e oneri per l’informatizzazione, eccessivi per chi ne fa un uso saltuario, e dannosi per l’imprenditore che deve districarsi tra decine di pratiche burocratiche e di interfacce web che non ha tempo per capire; ma viene multato anche solo se dimentica un adempimento.
Si tratta di trasferire pressione fiscale sui consumi di lusso, sugli alti redditi, alleggerendo i costi di transazione per i cittadini e le piccole imprese (informatizzare non è sempre un bene, anzi è sempre più spesso un male quando si punta solo a risparmiare personale), e agendo sulle altre possibili leve per finanziare la spesa pubblica necessaria agli investimenti e alla crescita del senso di sicurezza sociale. Una politica monetaria espansiva sarebbe utile, e la BCE ha cercato di attivarla, poiché una inflazione del 2% alimenta l’illusione inflazionistica che da decenni ha tacitato il conflitto sociale e creato un senso di falsa fiducia utile ai consumi, ma dopo decenni è provato che senza misure economiche “reali” una politica monetaria espansiva si trasforma in una “bolla” che prima o poi esploderà (vedi USA nel 2009).
Per una economia grande e con un debito pubblico enorme come l’Italia per uscire dal “fosso” di non crescita, insicurezza, ulteriore non crescita sono dannosi interventi semplicistici che si basano su una visione contabile dell’economia, ma occorre un insieme di misure incisive sui redditi alti e i consumi di lusso, unite a scelte politiche “dure” contro la criminalità organizzata e l’economia straniera. Per fare questo è indispensabile agire seguendo linee strategiche coerenti: spostamento massiccio del carico fiscale sui redditi alti per la riduzione del debito pubblico, semplificazione burocratica (deinformatizzazione) per le piccole imprese e sanzioni economiche leggerissime crescenti con la recidiva, controllo ed efficientizzazione degli intermediari finanziari, investimenti sulla pubblica sicurezza per ridurre la delinquenza organizzata e l’economia grigia, azzeramento della pressione fiscale sulla ricerca e sulle imprese appena nate, velocizzazione dell’ amministrazione della giustizia per dare certezze alle imprese, securizzazione dei posti di lavoro e delle pensioni per ridare fiducia alle famiglie. Fantapolitica?
In conclusione:
- in Italia la pressione fiscale “totale” non può essere ridotta, deve aumentare, ma deve essere ridistribuita;
- affinché in Italia torni la crescita deve tornare la fiducia. Le politiche di “flessibilità” e riduzioni di personale e di tutela sociale hanno creato una insicurezza diffusa che già ogni anno spinge i giovani di etnia italiana ad emigrare. Continuare ad attuare “tagli” sui deboli nell’illusione che basti per raddrizzare i conti è una strategia politica autodistruttiva.
- per ridurre il debito rispetto al PIL occorrono misure decise sulle aree “grigie” dell’economia. Credere di ridurre la spesa pubblica riducendo lo Stato è una politica suicida, né lo Stato italiano può farsi carico dei problemi del mondo quando ha un disastro in casa, tartassando solo i suoi cittadini che sono già “schedati” e perseguibili, e accollandosi milioni di stranieri “in sanatoria”. Sulle importazioni dall’estero di beni di lusso e sulla esportazione di capitali va attivata una pressione fiscale senza precedenti, con una strategia organica tesa a “scaricare” il più possibile i problemi sulle economie estere.
- le riforme “aziendalistiche” non sono state sufficienti a riavviare un paese che ha visto, anche grazie ad esse, in pochi anni ridursi in maniera consistente il reddito disponibile delle classi più povere, sbriciolarsi migliaia di piccole imprese e arrivare al pettine i “nodi” che una classe politica parassitaria ha lasciato aggrovigliare posticipando le azioni all’anno, e al Governo, seguente, fino a un debito pubblico di 3.000 miliardi di euro, in crescita.
- i patti di stabilità europei così come sono gestiti hanno oggi la funzione di limitare il rischio dei Paesi ricchi di essere obbligati a sostenere i salvataggi dei Paesi poveri, ma non sono pensati per risollevare le economie più deboli, anzi quasi sempre le danneggiano ulteriormente schiacciandole in una situazione sempre peggiore. Sarebbe stato meglio che restassero fuori dell’area euro, ma adesso uscirne sarebbe un ulteriore disastro. Occorre combattere contro i vincoli che distruggono la nostra economia e, contemporaneamente, riconoscere che si deve agire. Ma se comportamento del Governo presente sarà come nel passato il quadro in prospettiva è assai fosco.
Il comportamento dell’attuale governo è già come i precedenti. Per esempio non sono state toccate le banche, gli stabilimenti balneari, le cave, i tassisti, le imprese finanziarie, le multinazionali (soprattutto digitali), gli intermediari, i trafugatori di valuta, il lavoro nero, il pagamento dell’Iva (che andrebbe ridotta almeno di 2 punti), le organizzazioni mafiose, la riforma del catasto, le innumerevoli missioni all’estero, i privilegi ecc. ecc. Vedrei bene Perotti come ministro all’economia o alla finanza. Articolo, come sempre, molto dettagliato.