“C’è un nesso inscindibile tra democrazia e uguaglianza. E quando, di fronte alle disuguaglianze, crescono indifferenza o consenso, allora è a rischio anche la democrazia” (Rosanvallon)
“La democrazia è una forma di società, implica formare una società comune, cioè vivere nello stesso mondo”(Alexis de Tocqueville)
Nelle parole dello storico e sociologo Pierre Rosanvallon, discepolo di Claude Lefort, teorico contemporaneo della democrazia, prima del maggio 1968 si pensava all’emancipazione della classe operaia, all’emancipazione delle masse, dei gruppi, cioè all’emancipazione in termini di grandi gruppi sociali. Il maggio del 68 introduce la dimensione libertaria come un grande movimento che consiste nel fare dell’individuo un valore, mostrando che il cambiamento non è solo quello delle strutture economiche e sociali, ma anche quello delle mentalità.
La democrazia non è solo un regime politico, il suffragio universale, i diritti umani o lo stato di diritto; né solo attività o associazioni di cittadini, né democrazia partecipativa. La democrazia – come ci avverte Alexis de Tocqueville – è una forma di società, implica formare una società comune, cioè vivere nello stesso mondo.
Ciò che ha caratterizzato l’Europa dal secondo dopoguerra è stata una progressiva riduzione delle disuguaglianze, un movimento continuo, con la creazione dello Stato previdenziale, le indennità di disoccupazione, la riduzione del rischio lavoro, le convenzioni sul lavoro e in alcuni casi la tassazione progressiva e la riduzione degli utili. Tuttavia, in relazione all’uguaglianza, la grande utopia che è stata al centro della rivoluzione francese si è progressivamente deteriorata nel XX secolo, culminando in tutte le misure “in sottrazione” a cui stiamo assistendo in questo nuovo secolo nel mondo occidentale, soprattutto in Europa.
Sebbene oggi in Europa esistano ancora elementi del “welfare state”, cioè elementi di tutela del cittadino e di tutela collettiva del lavoro, questi diritti si sono via via corrosi e rischiano di sparire. Basta pensare che il divario tra lo stipendio del lavoratore che guadagna meno e lo stipendio del manager negli ultimi anni è passato da 1 a 20 negli anni ’70 e ’80, a un divario da 1 a 600 e oltre, in presenza di una precarietà e vulnerabilità crescenti.
Mentre assistiamo al deterioramento della democrazia e delle strutture sociali che la sostengono e legittimano, siamo esposti ad un pluralità di crisi incombenti, fra cui i conflitti nazionali e internazionali, in cui l’attacco della Russia all’Ucraina cambia gli equilibri internazionali, le emergenze sanitarie globali, il catastrofico cambiamento climatico e la rivoluzione dell’intelligenza artificiale, questi i problemi più rilevanti e drammatici che dominano l’ inizio di questo terzo millennio. Queste crisi ci presentano sfide immense. Riusciremo a dominarle o ci stiamo dirigendo verso il disastro?
Chi dovrebbe prendere queste decisioni, in un sistema che non è “più democrazia” – potere del popolo da parte del popolo per il popolo – né dittatura – potere di uno – se il potere è sempre più concentrato nelle mani di pochi gruppi di potere, mentre partiti politici deboli, in lotta tra loro, si rivelano incapaci di prendere decisioni che siano di reale vantaggio per tutti, soprattutto i più deboli? È evidente che l’interesse di tutti non corrisponde all’interesse di pochi. La politica dell’Unione Europea, che ha applicato misure impopolari a favore delle grandi banche e della concentrazione economica, di fronte alle crisi epocali che ci attraversano, tenta di trovare soluzioni che siano più forti degli interessi specifici dei singoli gruppi di interesse e degli stati membri.
In questo contesto compaiono partiti di destra populisti, correnti separatiste e leader carismatici, che non risolvono la disuguaglianza economica e sociale crescente e alimentano la divisione sociale, espellendo da un lato gli emigrati e alimentando le élite politiche ed economiche, che attuano misure economiche e sociali contro le persone.
La società della sfiducia
Di fronte alla “società della sfiducia” in cui la legittimità elettorale dei governanti è dissociata dalla legittimità delle loro azioni, i cittadini che negli ultimi anni hanno manifestato contro una casta di politici che, preso il potere, agiscono di fatto contro le loro società, sono spinti al disincanto, al disinteresse ed all’astensionismo. Pierre Rosanvallon sostiene che l’unica definizione e interpretazione universale possibile della democrazia è la radicalizzazione delle sue esigenze.
Pertanto, mentre la scienza politica stabilisce le “definizioni minime universali” della democrazia, tuttavia, la democrazia non può essere concepita sulla sola base di istituzioni rappresentative. Insieme al principio maggioritario e al conflitto tra le parti, devono partecipare al gioco democratico altre istituzioni, che accolgono la protesta e si appellano a principi di legittimità e riflessività.
Partendo da queste premesse guardiamo ad alcuni movimenti di partecipazione sociale, poiché la democrazia, al di là dell’atto elettorale, è anche e soprattutto attività cittadina, che richiederebbe un rilancio del protagonismo civico, che abbia un ruolo di primo piano e determini una svolta verso una effettiva sovranità popolare. Al di là del popolo-veto, del popolo-controllore, del popolo-giudice, in un concetto attivo di cittadinanza, traducendo il “paradosso di democrazia” teorizzato da Claude Lefort, Rosavallon propugna una “democrazia positiva”, che si esprima in azioni di cittadinanza attiva, poiché il potere appartiene al popolo e nello stesso tempo non appartiene a nessuno.
La democrazia positiva
Qui interviene nuovamente la nozione di uguaglianza, poiché, in “una società di individui”, l’uguaglianza non può ignorare la singolarità e non può essere assimilata all’omogeneità. In questa logica, se la democrazia è una forma di governo e un modo di condotta dei governanti, questi sono tenuti ad ascoltare e prestare attenzione all’unicità delle situazioni di ogni cittadino. Rosanvallon, infatti, riflette su come possa essere realizzabile quella “société des égaux*, quella “società degli eguali” (il titolo dell’opera nell’originale francese, pubblicato nel 2012, è proprio La société des égaux) che non tradisce la fascinazione per un obiettivo utopistico e del tutto scongiurabile.
Lo scopo è analizzare quali siano stati i fondamenti dell’uguaglianza dei moderni, per tentare di isolarne le trasformazioni e le degenerazioni, e per contribuire così, ad una sua ridefinizione, idonea ad assimilare con successo le rilevanti mutazioni istituzionali, sociologiche e antropologiche che si sono date dall’epoca delle grandi rivoluzioni liberali ai giorni nostri “Oggi – scrive – si tratta di riformulare le cose tenendo presente che viviamo nell’epoca dell’individuo”.
L’idea di “pari opportunità” appare inadeguata a rispondere alle istanze dei cittadini, poiché in effetti equivale alla consacrazione della disuguaglianza: “L’idea di pari opportunità fonda una teoria della giustizia come teoria delle legittime disuguaglianze. (…) L’idea delle pari opportunità porta innanzitutto a dissociare la giustizia distributiva e la giustizia redistributiva. Limitandosi alla formulazione delle condizioni di una distribuzione considerata equa delle risorse, tende di conseguenza a relegare e delegittimare le stesse azioni redistributive. (…) Questa dissociazione era al centro della visione dei principali pensatori della ‘terza via’ in Gran Bretagna”. (P. Rosanvallon, Sulla società degli eguali, 2012) La retorica del merito e dell’uguaglianza radicale delle opportunità, contrabandata nel contesto della società della concorrenza generalizzata e del rischio, consacra, di fatto, un mondo ordinato in senso fortemente gerarchico e diseguale.
È così che Rosanvallon passa ad opporre un “primo schema” per la teorizzazione di una innovativa dottrina dell’uguaglianza-relazione, che non solo non intende disfarsi dell’individualismo contemporaneo, ma si premura di valorizzarlo per ritrovare il perduto spirito dell’uguaglianza. Non dunque il criterio della similarità, ma quello della singolarità, alla luce del principio di reciprocità e dell’imperativo della comunalità. Rosanvallon discute di discriminazione, di politiche di genere, di beni relazionali e di uguaglianza di coinvolgimento, pronunciandosi per l’abbandono del modello del cittadino-proprietario a favore di una versione più socializzante della cittadinanza.
Il divorzio tra democrazia politica e democrazia come forma di società è così evidente che richiede un nuovo protagonismo, la democrazia come costruzione di sé, non la democrazia della ripetizione e dello sfruttamento, quella “democrazia arrugata” che difende il leader come incarnazione di un Paese (Berlusconi, Orban). Questa è una vera controrivoluzione, e per affermarla, occorre costruire nuove forme di uguaglianza. La lotta per l’uguaglianza è vitale per la democrazia e non elimina la componente del conflitto, determinante per le questioni dell’uguaglianza e anche per quelle della democrazia, dell’immaginario collettivo e della proiezione di sé, nella società di appartenenza e nel mondo.
Anche le procedure, quelle elettorali, ma anche quelle decisionali, non possono essere estranee a questa cornice. Le politiche sociali, del lavoro come dell’istruzione, devono essere funzionali alla capacitazione effettiva dell’individuo, affinché possa sentirsi ed essere parte attiva e positiva della comunità. Dunque non si tratta soltanto di costi cui corrispondono diritti tanto fondamentali quanto condizionati; si tratta di azioni continuativamente costituenti della stessa forma sociale, che rendono praticabile un certo grado di civismo, motore di un più sano individualismo.
Così Rosanvallon, pur non arrivando ad abbracciare le “posizioni del socialismo e persino di un soft comunitarismo”, tenta, con sforzo, di conciliare i segni distintivi della più attuale contemporaneità con la forza e con la dinamica morali del 1789, postulati come risorse non rinunciabili, nel tentativo di una verosimile reinterpretazione riformista della realtà in cui ci troviamo, nel nesso inscindibile tra democrazia e uguaglianza.
Quando, di fronte alle disuguaglianze, crescono indifferenza o consenso, allora è a rischio anche la democrazia.
(P. Rosanvallon: La contro-democrazia, 2007; La legittimità democratica, 2009; La società degli uguali, 2012)