“Beatrice Bugelli (1802-1885), la poetessa pastora ebbe una relativa notorietà come Beatrice del Pian degli Ontani. Ora torna a essere argomento di un libro: ne è autore un giornalista fiorentino, Paolo Ciampi.” (Silvio Ramat, ottobre 2009, n. 242 del mensile POESIA).
Nonostante un saggio dedicatole da Paolo Bellucci (editrice Medicea, 1986) e il meritorio lavoro di Paolo Ciampi, siamo quasi certi che molti dei nostri lettori e non pochi poeti contemporanei non conoscano la vicenda e i versi di Beatrice Bugelli, che merita invece qualche attenzione. Cosi proseguiva Ramat: “Niccolò Tommaseo, fin dal 1832, in un articolo uscito sulla Nuova Antologia, magnificava quella poetessa che bada alle pecore. Una montanara trentenne che stava facendo già sufficiente esperienza della durezza del vivere in luoghi la cui economia elementare e poverissima costringeva gli uomini a periodiche migrazioni verso aree della penisola dotate di più larghe risorse.”
Beatrice di Pian degli Ontani, al secolo Beatrice Bugelli, è la più nota poeta improvvisatrice dell’appennino tosco-emiliano tra Otto e Novecento. Analfabeta ma dotata di un’innata indole poetica e di un’altrettanto rilevante vena creativa, trascorre la sua esistenza tra due piccoli villaggi della montagna pistoiese, il Cornio e Pian degli Ontani. Dopo la morte della madre, accompagna ancora giovanissima il padre nei suoi lavori in Maremma. Si sposa a vent’anni con Matteo Bernardi, molto più anziano di lei, e proprio il giorno del matrimonio, assistendo al contrasto tra due improvvisatori, si lancia per la prima volta nella disputa poetica scatenando l’entusiasmo tra i convenuti. Da allora sarà costantemente invitata a esibirsi in feste e in cerimonie locali dove riscuoterà grandi successi tra la sua gente. In pochi anni raggiunge una grande notorietà, grazie a numerosi incontri con studiosi, letterati, estimatori di poesia e curiosi che vanno a farle visita e che in seguito la invitano a improvvisare versi in prestigiosi salotti letterari, aristocratici e mondani a Firenze, Pistoia e Bologna e in tante altre località minori (mondanità che tuttavia non parve intaccarla, NdA). Nel 1832 incontra Niccolò Tommaseo, in viaggio letterario in Toscana. Nella sua modesta casa nella Valle del fiume Sestaione vanno a fare la sua conoscenza, tra gli altri, lo studioso di “poesia popolare” e poeta Giuseppe Tigri, i letterati Massimo d’Azeglio e Giuseppe Giusti, il linguista Giambattista Giuliani.Beatrice continua a pascolare le pecore anche dopo il matrimonio e, “per ben due volte – ci informa Carla Schubert – stando alla macchia […] le toccò di mettere alla luce un figliuolo senza i conforti necessari”. Beatrice conclude la sua lunga vita, dura e laboriosa, il 25 maggio 1885. Da diversi anni a Pian degli Ontani è stato istituito un Centro Studi alla sua memoria. Recentemente, nella stessa località, le è stato intitolato il parco culturale Le parole delle tradizioni dove, su appositi massi levigati, sono stati incisi suoi versi.
(Da http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/beatrice-di-pian-degli-ontani/).
La fama non fu durevole, ma altre voci, già prima o accanto a quella “avevano testimoniato come dal popolo, dai senza nome né titolo, possa sgorgare qualcosa che non sarà illecito chiamare poesia.” Quando né radio, né televisione, né internet esistevano, le piazze dei paesi in estate e le case in inverno erano luoghi d’incontri, dove le comunità, giovani e anziani insieme, si davano al ricordo, al canto e alla narrazione. Nelle festività, nelle date cerimoniali, nelle fiere, negli appuntamenti calendariali, nei pranzi di matrimonio, i poeti estemporanei, erano gli immancabili protagonisti di questi spazi di socialità del mondo rurale, espressione delle antiche tradizioni, ma anche voce della saggezza e della spontaneità popolare. Le improvvisazioni poetiche, cantate in ottava rima, erano incontri di poesia a braccio, su temi a contrasto. In quel contesto “l’arte del cantare improvvisando” ha consentito anche alle persone con scarsa istruzione o agli analfabeti di esprimersi disegnandosi, nella comunità dove sono vissuti, un proprio spazio creativo, riconoscibile e riconosciuto. Non è nostra intenzione mitizzare quel passato rurale e farne un Eden, o l’agiografia di un Eldorado. Diciamolo: prima si stava peggio, la vita era dura. Ed è forse proprio per questo che, spesso, quel popolo citato da Silvio Ramat era estraneo alla mediocrità. E quindi spesso dava il peggio – o il meglio – di sé. I poeti orali, gli improvvisatori sono ormai quasi del tutto scomparsi, e ai pochi rimasti, ovviamente, non è dedicato alcuno spazio, nonostante oggi più di ieri ci siano tutti gli strumenti tecnici – quasi a costo zero – perché un po’ di quello spazio sia loro consentito. Prima che sia troppo tardi e senza presumere di rimediare alla mediocrità. Quello è un virus per cui non esiste un vaccino.
Gran passione provai nella mia vita,
quando la morte prese il mi’ figliolo;
di questo mondo ne fece partita,
io ne restai con ‘na gran pena e duolo;
creda pur che sentii pena infinita,
morto che fu quello: il sa Dio solo.
Quando da me me lo vidi partire
Io quasi come lui credei morire.
Io mi leverei il sangue dalle vene
e tutta mi vorrei ispropriare;
io domando a Dio, che tanto bene,
che tanta grazia a me mi voglia fare;
i giorni, gli anni, e li minuti mene
che sian corti e presto vengano a passare.
Io ringrazio il Signor dell’alta corte,
che bene come lui faccia la morte.