Dobbiamo a Roberto Rossi Precerutti e al suo saggio Torino capitale della poesia del primo Novecento, pubblicato su POESIA nel maggio 2007 (n. 216), un poeta – Carlo Vallini – il cui nome sarebbe sicuramente sfuggito anche a noi.
“Nell’immaginario collettivo, e financo nella mente dei suoi odierni abitanti,” così esordiva Precerutti, “Torino conserva ostinatamente l’immagine di città austera ed elegante, ancorché vecchiotta e provinciale, con la sua fedeltà memoriale alle dinastie che l’hanno governata (i Savoia, gli Agnelli) con quell’etica un po’ calvinista che attribuisce la primazia assoluta all’operosità. […] La complessità e la vivacità della Torino poetica dei primi del Novecento di marginale e di stantìo non ha davvero nulla, anche paragonata alla Milano marinettiana o alla Firenze de La Voce.” Sarebbe interessante rileggere anche l’excursus storico, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano. In ogni caso, accanto ad Amalia Guglielminetti e a Guido Gozzano, Precerutti proponeva ai lettori la figura e l’opera di Carlo Vallini, che proveremo brevemente a riassumere. Le note biografiche più accurate, come spesso accade, sono pubblicate al link https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-vallini_%28Dizionario-Biografico%29/; si tratta comunque di scorrere diverse pagine. Proviamo a riassumere.
Carlo Vallini (1885 – 1920) è cresciuto in Liguria ma consegue la licenza liceale a Torino e successivamente, costretto da suo padre (che volle punirlo per la sua insofferenza e il suo spirito di ribellione), si imbarca su un veliero per la Giamaica in qualità di mozzo. Dopo questa esperienza torna a Torino, dove si dedica con passione allo studio delle letteratura, e instaura una profonda amicizia, testimoniata da un copioso epistolario, con il poeta Guido Gozzano. Nel 1907 pubblica due raccolte di poesie, Un giorno e La rinunzia, in cui si distingue per una suggestiva grazia e una buona finezza espressiva, nonché per i toni sommessi e malinconici tipici della scuola crepuscolare, di cui Gozzano era il capostipite. Nel 1909 si laurea a Bologna, e diverrà insegnante in diverse città d’Italia. La sua produzione letteraria intanto non cessa, anzi, si dedica con successo anche al teatro, per cui scrive Radda – Dramma lirico in un atto (1912). Chiamato sotto le armi, non manca di distinguersi per il suo coraggio: nel 1916 viene insignito della medaglia al valore. Nel 1920 viene pubblicata la sua traduzione in prosa del poema La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Muore improvvisamente nel dicembre dello stesso anno, forse a causa di un’embolia, ma il suo fisico era comunque compromesso dagli eccessi giovanili e dai disagi della guerra. Qual era il canone allora dominante? Precerutti parla di cospicui e persino imbarazzanti prestiti dannunziani, in uno scontato tributo di un minore alla moda imperante. Tuttavia Vallini ha in sé il germe di un ascolto orientato a cogliere quanto di innovativo e interessante si manifesti, in quegli anni, nella poesia torinese; da siffatto germe nascerà Un giorno, l’opera più singolare e discussa di Vallini. “Infatti, nel nostro autore, l’affondo, non speculativo ma psicologico-esistenziale, con continue oscillazioni di tono dall’euforico-ironico al dimesso-intimistico, è o vorrebbe essere assai più incisivo di quanto sia disposto a tollerare l’elegante e morbido eclettismo in voga nei salotti subalpini.” Non c’è trascendenza in Vallini: egli è implacabile, lucido, desolato, ironico. Tra lamento e dileggio, incurante della coerenza filosofica del discorso, Vallini intona il suo canto alla morte, sconcertando forse Gozzano per quel gusto dell’eccesso, non senza fraintendimenti e successivi chiarimenti fra i due. E oggi che accade in riva il Po, fra ansie di cambiamento e inevitabili cadute di gusto in chi amministra le istituzioni, la cultura, la città? La poesia c’è e talora si manifesta. Come un fiume carsico, spesso, con l’irruenza della piena, talvolta. Ma c’è. Un consiglio ai lettori: il blog https://alfredorienzi.wordpress.com/poeti-di-torino-in-10-righe/ non vuole essere una ricognizione puntuale ed esaustiva della poesia e dei poeti di Torino e dintorni, né una antologia storicizzata presuntamente (e presuntuosamente) valoriale, con tutti i limiti e le parzialità dei criteri comunque adottabili. E poiché l’oggettività si tingerebbe inevitabilmente di soggettività, ribalto radicalmente la questione e i termini: le presenze sono dichiaratamente determinate da un criterio soggettivo, parziale, cronachistico e non storico e sono in ultima analisi un minimo e grato riconoscimento ai tanti amici di poesia che ho avuto la fortuna di incontrare personalmente o, in rari casi, solamente di sfiorare sulle pagine. (A.R.). Consultatelo, altrimenti concludereste erroneamente che a Torino la poesia non c’è.
Ben io quel dí che prima lungamente
negli occhi tuoi sereni m’affissava,
sapea l’abisso che lo sguardo scava
nel secreto dell’essere dormente.
Tutto pareva in me nascostamente
nutrir la nuova cupidigia prava,
quando il folle desío d’averti schiava
torbido divampò nella mia mente.
Ma poi che ti ridussi nell’intero
abbandono di te, poi che nel tardo
sonno ti contemplai bianca, asservita,
rabbrividii sull’orlo del mistero
che infondea per la forza d’uno sguardo
nella tua vita tutta la mia vita.