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SAN MARTINO TRA LA NEBBIA DELLA FELICITÀ

Dissertazioni filosofiche, ricerche neuroscientifiche, indagini psicologiche e socio-economiche ininterrotte per carpire il segreto della felicità e mettere in essere le modalità per trovarla e darle vita nel proprio sé. Difficile definirla, così come essere consapevoli della sua presenza, non avendo noi esseri umani Prometeo che possa rubarla, come il fuoco, agli dei e consegnarcela. Come se si cercasse per il mondo qualcuno di cui non si conosce bene l’identità, pur essendo, a dir di Pirandello, insicuri delle nostre lanterne identitarie che proiettano ombre, parvenze come le anime fioche, dantesche, del cielo della luna, o quelle di cui non si cura l’uomo “sicuro” montaliano, stampate dalla canicola su uno scalcinato muro…

Che cosa è la felicità? D’impulso si stagliano nell’immaginario collettivo la ricchezza, il denaro, quel vil metallo “pecunia” che, a detta del cinico imperatore Vespasiano, “non olet” (non puzza). Dobbiamo ringraziare la nostra grande eredità classica per sgomitolare, in qualche modo, l’intricata matassa. Felicità ha il suo etimo nel sanscrito, poi passato al greco “fare, produrre” e al latino “fecondo, fertile”, quindi soddisfatto, appagato. Sembrerebbe ciò dare forza alla relazione felicità-ricchezza. Sono però necessarie delle glosse, nella visione relativistica del “senso” in rapporto alla situazione storica, variabile diacronicamente. Come per il peccato di gola, punito in modo graffiante nell’inferno dantesco, per la fame che allora divorava il popolo, nel periodo classico felicità è la fertilità, fecondità, l’abbondanza dei beni per vivere. Del resto lo stesso sintagma assurge a simbolo della “continuazione” della specie. La ricchezza, possesso di averi, non appaga, si scontra col desiderio, bisogno di qualcosa che dia stimolo all’uomo; in tal caso, docet Leopardi, la felicità è virtuale: acquisito un bene se ne desidera un altro. Insomma, la felicità è la ricerca della felicità, si desidera l’idea di qualcosa, non il qualcosa. Se il possesso è fine a se stesso, si cade nell’avarizia, solitario cammino nel volere inglobare l’esterno nella propria interiorità, come Mazzarò verghiano, dalle infinite “terre”. L’avarizia, l’avidità, la cupidigia falsano la vita autentica, impersonate dalla lupa, impediscono al personaggio Dante di uscire dalla selva oscura, per raggiungere la salvezza. Se la felicità è scalata sociale, ne derivano solitudine ed anaffettività: Mastro don Gesualdo ne è l’esempio per antonomasia. All’opposto non possiamo ritenere felicità la povertà (da paupertas, “aver poco”) per gli stenti che comporta, qualora non sia intesa come la Povertà che Francesco volle come sua sposa, volontariamente. A conforto di ciò, “misera, umile” chiama l’Italia Dante, intendendo infelice, alla maniera classica e non priva di ricchezze, come si intende, con disprezzo, oggi. Lo sfoggio di ricchezza è grassa e fasulla idea di felicità, volgare; in tal caso si capovolge semanticamente l’evoluzione del termine, da proprio del volgo a tipico dei modi inevitabilmente rozzi del volgo. Petronio ci fornisce una bellissima testimonianza del volgare sfoggio di lusso nella cena di Trimalchione nel Satyricon: un gradasso arricchito, senza quella finezza culturale che non ha ascrizioni a genere, età, classe sociale.

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Cosa dire delle virtù, che sono considerate la via della felicità? Aristotele è maestro in tal campo, ripreso dal Padri cristiani; ma essere virtuosi comporta esercizio, rinunce, schermate come per gli stoici, minimalismi per gli epicurei, “vivi nascosto”, apatia, piacere catastematico, passivo che limita la vita magmatica delle passioni. Anche la passione ha nel suo etimo il phatos, la sofferenza, il patimento.

Il relativismo nell’esegesi delle dottrine che riguardano la felicità è sommo. Variegate le opinioni, nessun assolutismo, nessuna oggettività, molteplici i trattati psicologici evidenzianti correnti di pensiero diverse che si annullano a vicenda. La migliore magistra, qual è l’esperienza, ci rivela che il successo porta alla rovina spesso, la fama inebria ma non rende felici. Il solipsismo negativo, l’avere tutto infiacchisce; non avere nulla rende desolati, il lavoro stanca, la mancanza di lavoro prostra, la libertà disorienta, la mancanza distrugge.

Non si ferma tuttavia la ricerca: l’ultimo metodo per trovare la felicità sarebbe nel “flow”, immersione in quel che si svolge per perdere la cognizione del tempo. Una sorta di stordimento che non ti fa pensare, un moderno ritrovato americano che ci fa tornare col pensiero al maledettismo, agli Scapigliati, poeti, musicisti, artisti che facevano uso di alcol, a coloro che ricorrono ad estremismi, droghe per provare delle emozioni. Un’evasione dall’hic et nunc, da vivere intensamente, perché passa e travolge tutto. Sfaccettatura diversa nutrire degli ideali che sono la nervatura dell’uomo, lontana dal flow e dal naufragar nell’infinito, nella dolcezza del mare…pur esistenzialmente laborioso. La felicità è un frutto proibito, specie se si voglia raccoglierlo da soli. L’uomo è un essere sociale e vive con gli altri, altrimenti si sarebbe estinto…

La consolazione, il compatimento, il conforto, il consulo (offerte di cibo per consolare i parenti del defunto) di cui ci ha lasciato traccia letteraria Verga ne I Malavoglia, ancora vive in alcune zone della Sicilia; hanno la radice in cum-, con, insieme.

E se la felicità fosse… sentire l’alito dell’altro, dono gratuito, qualcosa di non tangibile ma dagli effetti benefici, purezza del sentire, gioia della condivisione, del conforto, dell’amore non narcisistico, la dignità di essere se stessi, il rispetto della fides, il profumo delle piccole, frugali cose che diamo svogliatamente per scontate ma che sono preziose, da amare…

Proprio oggi, San Martino ci induce a una riflessione…nell’occasione di zuccheri, miele, zeppole che dolcificano il palato della vita, cogliendo la fragranza di odori mediterranei che ci inebriano e si diffondono come invisibile pulviscolo nell’aria intorno a noi… Non serve un mantello firmato, griffato per addobbarsi e ultracoprirsi in modo esclusivo: se ne porgerai una parte a chi ha freddo, come per magia negli occhi di chi riceve e ti è grato, leggerai la tua stessa felicità.Non serve cancellare, rinnegare il passato, le proprie origini in una vacua e mera costruzione artificiosa di sé e protesa alla ricerca di pseudogratificante accettazione finta da parte dell’altro: la nostra esistenza si snoda su una lineare catena i cui anelli si tengono per “mano”. Magari non ce ne si rende conto, ma tutto è un continuum.

Non serve isolarsi in una torre lussuosa, con lustrini, con marmoree o argentee statue che recano luce, docet Lucrezio… sarà sempre una luce fredda in una casa in cui i rumori e le voci sono di coloro che condividono utilitaristicamente gli spazi… Quanto bella è invece l’esplosione piacevolmente rumorosa dell’amicizia, dell’allegria, affettività vera, nella riunione familiare, amicale, amorosa con semplicità e umiltà che ti fa brillare gli occhi, sollevando calici di vino, la cui ebbrezza bacchica, simposiaca di sapore oraziano, che si perde nei millenni, ti induce non a pronunciare verità taciute o scomode o di tradita fides ma ti fa sorridere nella sincerità, nella genuinità, nella trasparenza degli affetti e dell’amore, tratto prezioso della vita. Rendiamo omaggio a Martino e alla bella tradizione: l’estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino!

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Quella che vede protagonista San Martino è una tradizione secolare che abbraccia tutta la nostra penisola… e così, tra il carducciano ribollir dei tini… tra il biancheggiare del mar, tra i ceppi accesi, l’aspro odor dei vini…rallegra il nostro “sentire”. Sorridiamo allora sornionamente quasi in beffa ad esperti e dotti, a ricerche, alle opinioni per cui la felicità sia un dato ontologico oggettivo o dalla soggettività trascritta nel Dna, secondo uno studio scozzese… facciamo una dolce carezza al nostro cuore che brilla e batte emozionato, per non trovarsi nel buio della solitudine, con la presenza vitale dei nostri cari che sfioriamo con le dita, come pigiassimo sui tasti del pianoforte, emettendo le note del “magari è questa la felicità”. Tutti dovremmo essere felici, ciascuno a suo modo; ma esserlo, come ci suggerisce Benigni, anche carpendo l’attimo, perché “del doman non c’è certezza”…e il velo di malinconia che avvolge il calice di vino ci dice, come nel foscoliano velo delle grazie, che non esiste la pienezza del tutto, la felicità a tutto tondo, ma che vale la pena “com-prenderla” , afferrarla, anche nelle sue sparse particelle, e accoglierla nella casa della nostra anima e del nostro cuore.

Data:

11 Novembre 2021