“Sarò con te a qualsiasi costo” è scritto in una missiva riservata che nel luglio 2002 Tony Blair, allora primo ministro della Gran Bretagna, inviò a George Bush, all’epoca presidente degli Stati Uniti d’America. Otto mesi dopo sarebbe scattata in Iraq l’invasione da parte delle truppe angloamericane. “L’Iraq ha armi di distruzione di massa” si sentiva dire in tutto l’Occidente. Ma quelle armi non furono mai trovate. Le procedure d’ispezione e risoluzione mai portate a termine.
Si iniziò dunque una guerra che non poteva essere considerata quale “ultima risorsa possibile”. Non si era “stabilito, oltre ogni ragionevole dubbio” che Saddam Hussein stesse producendo armi chimiche o biologiche, come invece aveva asserito “ con una certezza ingiustificata” all’opinione pubblica Tony Blair nel 2003, adottando scelte politiche sulla base di valutazioni “imperfette”, costruite su un’architettura “totalmente inadeguata”.
È quanto emerge dal rapporto Chilcot presentato il 6 luglio al centro congressi Queen Elizabet II di Westminster.
Si tratta di un’inchiesta, costata 10 milioni di sterline, istituita da Gordon Brown nel 2009 e condotta dalla commissione parlamentare, presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot, con lo scopo di far luce sulle circostanze che condussero il governo di Tony Blair ad entrare in guerra, accanto agli Stati Uniti, contro Saddam Hussein.
La Commissione ha analizzato oltre 150.000 documenti e ascoltato più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier britannico.
“Gli Usa e la Gran Bretagna minarono l’autorità dell’Onu – si legge nel rapporto – Nel marzo 2003 non c’era una minaccia imminente di Saddam Hussein”. Dunque, secondo la Commissione, si sarebbe potuta usare una “strategia di contenimento”, sebbene non si potesse escludere la necessità di un conflitto “ad un certo punto”.
Blair avrebbe “deliberatamente ingigantito” il pericolo di minacce provenienti dall’Iraq per sostenere a tutti i costi le decisioni di George W. Bush. E per questo avrebbe presentato al Parlamento un rapporto basato più sulla sua percezione che sui dati ricevuti dall’intelligence che tuttavia fornirono “informazioni errate” basate sul convincimento che quelle armi di distruzione di massa Saddam le avesse effettivamente.
Ci fu dunque, a quanto emerge, la volontà politica di scatenare un conflitto finalizzato, probabilmente a un cambio di regime, del quale Blair discusse con Bush già nel dicembre 2001, a soli tre mesi dall’attacco alle torri gemelle. Le accuse da parte della Commissione a Tony Blair non si fermano all’entrata in guerra. L’ex premier sarebbe stato infatti avvertito delle conseguenze che un conflitto armato in Iraq avrebbe comportato. “Era stato messo in guardia che un’azione militare avrebbe aumentato la minaccia di Al Qaeda al Regno Unito e agli interessi britannici. Era stato anche avvertito che un’invasione avrebbe potuto far finire le armi e le capacità militari irachene nelle mani dei terroristi. Sono morti più di 200 cittadini britannici come conseguenza di quel conflitto, e molti di più sono rimasti feriti. L’invasione e la conseguente instabilità hanno causato, a partire dal 2009, la morte di oltre 150mila iracheni, probabilmente molti di più, la gran parte civili. Più di un milione hanno dovuto lasciare le loro case . E tutto il popolo ha sofferto enormemente”.
Come non prevedere che il paese sarebbe precipitato nel caos e che sarebbe caduto preda di una profonda instabilità, terreno fertile per le fazioni estremiste? L’intervento militare, secondo Chilcot, avrebbe ottenuto risultati tutt’altro che positivi, degenerando in un vero fallimento, con conseguenze negative fino ai nostri giorni. Secondo un rapporto del 2007 dell’Onu, sono stati almeno 2 milioni gli iracheni costretti a lasciare il Paese e circa 1,7 milioni i profughi interni. Secondo l’Unicef la guerra in Iraq ha reso orfani almeno 800 mila minori. Le vittime civili sono state circa 180 mila.
I morti per mano di Daesh ammontano a oltre 18 mila.
Il conflitto iniziò ufficialmente il 20 marzo 2003 e terminò il 15 dicembre 2011. La Gran Bretagna lo abbandonò nel 2009. 179 soldati britannici, 4.500 americani e almeno 150 giornalisti persero la vita. Oltre 1.600 soldati Usa tornarono a casa mutilati. Non si è fatta attendere la replica di Tony Blair che, pur esprimendo il suo rammarico, ha respinto ogni accusa. “Che la gente sia d’accordo o meno con la mia decisione di intraprendere un’azione militare contro Saddam Hussein, comunque l’ho presa in buona fede e credendo che fosse nell’interesse del Paese. Non credo – ha continuato – che la rimozione di Saddam Hussein sia la causa del terrorismo che vediamo oggi in Medio Oriente o altrove”.
Anzi, se fosse rimasto, secondo l’ex primo ministro, ci sarebbe stata una primavera araba irachena con lui al potere.
“Credo che la cosa più importante per tutti noi sia pensare: come possiamo assicurarci che i governi lavorino meglio, le decisioni siano prese meglio, i consigli legali valutati meglio? Tutto questo credo sia la miglior eredità che possiamo trarre”.
Precisa che il suo Gabinetto dedicò ben 26 sedute alla discussione sull’intervento militare in Iraq e asserisce che le basi legali c’erano, secondo la conclusione del procuratore generale.
“Il rapporto formula critiche alla preparazione e alla pianificazione dell’operazione, oltre a stigmatizzare le relazioni con gli Stati Uniti Queste sono gravi critiche che richiedono risposte serie. Mi prenderò le mie responsabilità, senza alcuna scusa”. Blair resta comunque dell’avviso che il mondo, senza Saddam Hussein, sia un posto migliore.
Conclude con un omaggio alle forze armate britanniche, esprimendo il suo profondo rammarico per la perdita di vite umane e per il dolore causato alle famiglie. “La Gran Bretagna non dovrà mai più entrare in un conflitto in questo modo”, ha commentato un portavoce delle famiglie dei caduti britannici che stanno valutando azioni legali.
Decine di manifestanti si sono radunati di fronte al “Queen Elizabeth Centre” di Westminster per chiedere a gran voce il processo per crimini di guerra a carico di Blair, sostenendo, contrariamente a quanto da lui asserito, l’insussistenza di presupposti legali alla base dell’intervento.
Se il leader laburista Jeremy Corbyn ha detto che tutti dovrebbero essere rattristati da quanto rivelato dall’inchiesta, auspicando per il futuro maggiore indipendenza nei rapporti con gli Stati Uniti, il primo ministro dimissionario David Cameron si schiera al fianco di Blair: “Ci sono importanti lezioni da imparare – ha detto intervenendo alla Camera dei Comuni – L’intervento militare deve essere l’ultima opzione, ma dal rapporto Chilcot non emerge che ci fosse la volontà di ingannare i cittadini da parte del governo di Blair. In ogni caso anche i parlamentari che votarono a favore dell’attacco devono assumersi la loro parte di responsabilità”.